martedì 18 dicembre 2012

Scuola: tutti i numeri del concorsone


11.542 i posti e le cattedre disponibili 321.210 i candidati, 501.287 le richieste per posti e cattedre. Sono alcuni dei numeri del concorsone scuola 2012

Massima Di Paolo su abcrispramio.it del 18-12-12
Sono iniziate ieri, le prove del concorsone scuola per docenti, indetto dal Ministero dell’Istruzione, lo scorso 24 settembre. Le prove proseguiranno anche oggi e, si svolgeranno in più sessioni, secondo il calendario pubblicato il 23 novembre nella sezione dedicata del sito del Miur.
I test saranno eseguiti su computer, unici per tutti i posti e le cattedre messe a bando. Tali test hanno l’obiettivo di accertare le capacità logiche, di comprensione del testo, le competenze digitali e linguistiche del candidato in una delle seguenti lingue straniere a scelta: inglese, francese, tedesco e spagnolo.
Ciascun candidato avrà a disposizione una postazione informatica, alla quale potrà accedere tramite i propri dati anagrafici ed il codice fiscale. La prova è costituita da 50 quesiti a risposta multipla, con quattro opzioni di risposta, così ripartiti: 18 domande di capacità logiche, 18 domande di comprensione del testo, 7 domande su competenze digitali, 7 domande sulla lingua straniera. Il tempo a disposizione è di 50 minuti, al termine dei quali ogni candidato potrà visualizzare il risultato conseguito sulla postazione assegnata. Per il superamento della preselezione è necessario conseguire un punteggio non inferiore a 35/50.
I quesiti oggetto della prova sono estratti da una banca dati, resa nota e pubblicata sul sito del Miur il 23 novembre insieme al calendario, sulla quale gli ammessi alla prova preselettiva hanno avuto la possibilità di esercitarsi. Complessivamente, sono stati infatti ben 8.481.184 i moduli scaricati per le esercitazioni e 300.387i candidati che hanno utilizzato il simulatore gratuito messo a disposizione del Ministero per prepararsi alla prova. In merito ai quesiti pubblicati, e con riferimento anche ad alcune fantasiose notizie di stampa, si precisa che, su 3.500 quesiti, solo alcuni presentavano errori o refusi, in particolare nel modo in cui le stesse domande sono state formulate. Questi, comunque, sono stati eliminati.
La prova scritta. Le date il 15 gennaio
I candidati che superano la prova di preselezione sono ammessi alle successive prove scritte,  relative alle discipline oggetto di insegnamento per ciascun posto o classe di concorso.
Le prove consistono in una serie di quesiti a risposta aperta e sono finalizzate a valutare la padronanza delle competenze professionali e delle discipline oggetto di insegnamento. La prova scritta della scuola primaria comprende anche l’accertamento della conoscenza della lingua inglese. I candidati all’insegnamento di discipline scientifiche e tecnico-pratiche – che prevedono anche attività di laboratorio – svolgeranno oltre alla prova scritta anche una prova di laboratorio. Il calendario delle prove scritte sarà pubblicato dal Ministero nella Gazzetta Ufficiale del 15 gennaio 2013.
La prova orale. Colloquio e lezione simulata
I candidati che superano le prove precedenti sono ammessi allo svolgimento delle prove orali. Queste hanno per oggetto le discipline di insegnamento. Oltre a valutarne la padronanza, la prova orale dovrà verificare anche la capacità di trasmissione delle stesse discipline e la capacità di progettazione didattica, oltre ovviamente alla capacità di conversazione nella lingua straniera prescelta dal candidato.
La prova orale sarà così articolata:
  • una lezione simulata – novità assoluta del concorso – della durata di 30 minuti su una traccia estratta dal candidato 24 ore prima dello svolgimento della prova orale.
  • un colloquio, anch’esso della durata di 30 minuti, nel corso del quale saranno approfonditi i contenuti, le scelte didattiche e metodologiche operate nella lezione simulata.
Così come nelle prove scritte, la prova orale della scuola primaria comprende anche l’accertamento della conoscenza della lingua inglese.
Ma vediamo un pò di numeri, Secondo i dati forniti dal Miur, per gli 11.542 posti a concorso,
  • 321.210 sono  i candidati, 501.287 le richieste per posti e cattedre;
  • la maggioranza dei partecipanti è donna:  258.476, contro i 62.734 uomini;
  • due terzi degli aspiranti insegnanti che hanno fatto domanda di partecipazione al concorso non provengono dalle graduatorie ad esaurimento. Sono 214.453 (66,8%), rispetto ai 106.757 (33,2%) che sono invece presenti nelle stesse graduatorie;
  • l’età media dei canditati è di 38,4 anni. poco più alta è l’età media degli uomini (40 anni) rispetto a quella delle candidate donne (38 anni). La maggior parte dei candidati (158.879) ha un’età compresa tra 36 e 45 anni. Seguono i 113.924 candidati con un’età pari o inferiore ai 35 anni e i 45.595 con un’età compresa tra i 46 e i 55 anni. I candidati con un’età superiore a 55 anni sono 2.812.
  • Il 26,2% delle domande riguarda i posti disponibili nella scuola dell’infanzia, il 26,6% la scuola primaria, il 20% la secondaria di I grado e il 27,2% la secondaria di II grado.
  • Circa la metà delle domande di partecipazione al concorso riguarda posti disponibili nel Sud: sono 164.827, il 51,3%. Percentuali minori per le domande riguardanti le regioni del Nord (29,3%) e del Centro (19,4%). La regione con il maggior numero di domande è la Campania: 56.773;
  • 8,5 milioni, sono stati i moduli utilizzati per le esercitazioni e, 300.387 i candidati che hanno utilizzato il simulatore gratuito messo a disposizione del Ministero per prepararsi alla prova.
  • 2.520 le aule che saranno utilizzate per lo svolgimento del test di preselezione; 224 le aule di riserva. Per ogni turno saranno impegnati49.385 computer, mentre sono 2.649 i computer di riserva. Sono state inoltre distribuite 5 mila chiavette USB a tutte le scuole impegnate.
  • in merito al  compenso per il personale coinvolto nelle prove di preselezione, la somma stanziata dal Miur è di circa 200 euro al giorno per aula. Considerato che sono 4 le ore aggiuntive al normale orario di lavoro giornaliero, per due persone il compenso risulta quindi di circa 25 euro l’ora. Il  Miur precisa che il costo del concorso è inferiore al milione di euro ed è totalmente assorbito dai compensi al personale coinvolto nelle operazioni di assistenza ai candidati durante le prove.

venerdì 14 dicembre 2012

EXPO: PER LA PRIMA VOLTA IN ITALIA LA "WORLD CANAL CONFERENCE"

AGENORD - Sarà la Lombardia a ospitare, nel 2014, - per la prima volta nella quasi trentennale storia della manifestazione e alla vigilia dell'Expo di Milano - la Conferenza mondiale annuale sulle vie navigabili interne, promossa dall'Inland Waterways International: nella seconda decade del mese di settembre 2014 Milano darà vita alla 27a edizione di quella che in lingua inglese è denominata la 'World Canal Conference'. Saranno quattro giorni infrasettimanali di workshops (molto probabilmente calendarizzati dal martedì al venerdì, tra il 10 e il 20 settembre 2014) dedicati alle infrastrutture, all'economia, al turismo e alla cultura, ai quali seguiranno un sabato e una domenica di visite guidate, riservate ai 150 delegati provenienti da tutto il mondo.  È stato il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni a presentare il prestigioso evento internazionale, assieme al presidente di Navigli Lombardi Emanuele Errico, al vice presidente dell'Inland Waterways International Tom Grasso e all'amministratore di Autostradale Srl Franco Repossi. Dal 1988, anno della prima conferenza sulle vie d'acqua tenuta in Illinois, l'Italia non è mai stata designata dall'Inland Waterways International come sede della Conferenza mondiale sulle vie navigabili interne. Dopo la Serbia, gli Stati Uniti, l'Olanda, la Cina e, nel 2013, la Francia, "la nostra Regione - ha detto Formigoni alla presentazione dell'iniziativa a Palazzo Lombardia - ospiterà questa autorevole piattaforma internazionale a meno di un anno di distanza dall'Expo di Milano".  Proprio l'Expo - assieme alla Conferenza mondiale sulle vie navigabili interne - "sarà una tappa chiave che darà ulteriore impulso a questo percorso di rinascita della navigazione sulle acque interne lombarde. Gli investimenti per Expo creeranno una rete di connessioni navigabili tra il territorio e il capoluogo, il cui centro nevralgico sarà proprio il sito espositivo". A questi investimenti si sommano tanti altri, programmati grazie all'accordo siglato lo scorso ottobre tra Regione Lombardia, Navigli Lombardi, Consorzio Villoresi e Parchi Adda Nord, Agricolo Sud Milano, delle Groane e Valle del Ticino: 46 milioni di euro, in totale, per opere di infrastrutturazione e per iniziative di promozione turistica. A suggellare l'annuncio della Conferenza mondiale è stata la presentazione, a Palazzo Lombardia, dell'applicazione 'I navigli di Leonardo', scaricabile gratuitamente dall'Apple Store a partire dall'inizio del 2013: una vera e propria guida interattiva, multimediale e georeferenziata, per scoprire in tempo reale, dai propri tablets e smartphones, il grande ecosistema di offerta turistica dei Navigli, sponsorizzata da Autostradale Srl. Ancora, la giornata di oggi segna l'inaugurazione, a Milano, da parte dell'assessore alle Infrastrutture e Mobilità Andrea Gilardoni, del Centro documentale di Navigli Lombardi presso la sede della società in via Rosellini 17. A seguire, alle ore 18, l'avvio della navigazione invernale della Linea 1, detta 'Itinerario delle Conche', dopo il successo della navigazione estiva: il servizio sarà operativo fino al 3 febbraio 2013.

lunedì 10 dicembre 2012

Le prospettive del patto sulla produttività


Claudio Lucifera e Federica Origo su lavoce.info del 7 dicembre



L'accordo sulla produttività avrà successo? Incentiva la contrattazione di secondo livello, con importanti risorse a disposizione, ma anche una grande quantità di obiettivi. I dubbi sulle agevolazioni fiscali e l'incognita della mancata adesione della Cgil.
Il recente accordo “sulla produttività” firmato dalle parti sociali e dal Governo s’inserisce in una lunga tradizione di “patti sociali” a cui, nei momenti di particolare crisi, il nostro paese ha fatto ricorso nel tentativo di rilanciare il sistema economico modificando il contesto istituzionale. Sebbene non tutti i “patti sociali” del passato abbiano avuto successo, alcuni hanno significato molto per la modernizzazione del mercato del lavoro e per lo sviluppo economico del paese. È perciò importante che l’accordo attuale, inteso a rivedere le modalità di svolgimento della contrattazione collettiva per favorire lo sviluppo e incrementare la produttività, si aggiunga alla lista dei successi e non a quella dei fallimenti.
RISORSE E OBIETTIVI
Dall’esperienza del passato, si rileva che il successo di un “patto sociale” dipende da una serie di fattori. In primo luogo, dalle risorse messe in gioco dal Governo e dall’efficacia con cui queste intervengono nell’incentivazione delle attività produttive. In secondo luogo, dalla precisione con cui gli obiettivi vengono esplicitati, dai tempi e dalle modalità di implementazione. In termini di risorse, l’impegno di 1,6 miliardi di euro con la possibilità che diventino 2,1 miliardi, tra il 2013 e il 2014, appare uno sforzo promettente, date le attuali difficoltà di bilancio. Quanto alla definizione degli obiettivi, va detto che nell’accordo è stato inserito un po’ di tutto, dalle regole di rappresentanza alla revisione dei livelli di contrattazione, dalle forme di partecipazione dei lavoratori all’azionariato dei dipendenti, e ancora orari, mansioni, formazione, tutela dei lavoratori anziani e persino la riduzione del cuneo fiscale. Non c’è dubbio che ciascuno di questi punti meriti un’incisiva azione di Governo, ma è lecito nutrire qualche dubbio sull’efficacia di una lunga serie di affermazioni alquanto generiche e di auspici per il futuro.
RIFORMA DEI LIVELLI DI CONTRATTAZIONE
L’accordo assegna alla contrattazione collettiva nazionale il compito di salvaguardare il potere d’acquisto dei salari, senza alcun automatismo ma con riferimento alle reali dinamiche economiche, e di garantire l’uniformità (su scala nazionale) degli aspetti normativi. Alla contrattazione di secondo livello, integrativa o di produttività, spetta il compito di allineare le esigenze produttive dell’impresa alle retribuzioni dei lavoratori. In altre parole, si consente agli accordi aziendali, come già avveniva in passato, di definire modalità retributive (retribuzione variabile collegata a elementi di produttività, redditività) e organizzazione del lavoro (orari, mansioni, ecc.) che consentano guadagni di efficienza per favorire la crescita della produttività (nonché delle retribuzioni dei lavoratori). Il tutto supportato, così recita l’accordo, da “idonee politiche fiscali di vantaggio”.
Cosa cambia veramente? In pratica, è previsto un ridimensionamento degli effetti egualitari della contrattazione collettiva nazionale, a favore di un potenziamento degli istituti su cui può incidere la contrattazione di secondo livello: retribuzioni, orari, inquadramenti potranno essere definiti dalla contrattazione aziendale per rispondere meglio alle esigenze produttive dell’impresa.
In particolare, una parte della retribuzione contrattata a livello aziendale potrà essere definita in funzione di indicatori di produttività, redditività, qualità, innovazione, o altri elementi funzionali a incrementare la competitività.
Se l'impianto dell’accordo dovesse essere confermato, cosa è lecito attendersi da questa serie di provvedimenti?
RETRIBUZIONE VARIABILE E PRODUTTIVITÀ
Non c’è dubbio che l’abolizione degli automatismi salariali e il potenziamento della contrattazione di secondo livello - anche in deroga a quella nazionale - consentiranno maggiore flessibilità retributiva e normativa e una migliore articolazione degli esiti contrattuali sul territorio nazionale, anche tra le stesse imprese all’interno di uno stesso comparto. Questo aspetto risponde a un’esigenza fortemente sentita dalle imprese per ristabilire le reali condizioni di competitività sul territorio nazionale e tra grandi e piccole imprese.
Il secondo tema, alquanto dibattuto fra gli economisti, è l'impatto in termini di crescita della produttività della definizione di parti di retribuzione variabile nella contrattazione di secondo livello. (1)
Gli effetti dipendono dalla quota di retribuzione variabile, dall’indicatore di performance utilizzato e dalle condizioni di contesto in cui opera l’impresa. La figura 1 mostra come i premi retributivi legati alla performance dell’impresa rappresentino, in Europa (7-12 per cento), ancora una quota esigua della retribuzione complessiva rispetto, per esempio, agli Stati Uniti (25-40 per cento).
Figura 1 - Retribuzione legata alla performance individuale, collettiva e azionariato dei dipendenti in Europa e Stati Uniti
a) Europa (2000-2005)                                                    b) Stati Uniti (2002-2006)
Fonte: Boeri, T. Lucifora, C. Murphy, K. Executive and Employees Compensations: Productivity, Profits, and Pay, Oxford University Press, in stampa, 2013
Per quanto riguarda l’Italia, in un recente lavoro mostriamo che, anche dopo l’accordo del 1993, i premi retributivi variabili non superano in media il 5-6 per cento della retribuzione totale. (2)
Anche la struttura del premio risulta cruciale: premi troppo complessi, che dipendono da un numero elevato di indicatori di performance dell’impresa, sono meno efficaci di premi più semplici, soprattutto se basati su un unico indicatore di produttività aziendale. Inoltre, i guadagni di produttività sono di fatto nulli nelle imprese che utilizzano i premi anche per suddividere il rischio con i lavoratori, come succede quando l’erogazione effettiva è condizionata all’esistenza di utili, a prescindere dal numero e tipo di indicatori di performance utilizzati nell’algoritmo del premio.
Infine, l’effetto varia notevolmente con la dimensione d’impresa (è assente nelle imprese con meno di 20 dipendenti), il livello di innovazione (è più elevato nei settori più tecnologici) e il tasso di sindacalizzazione (risultando più consistente nelle imprese meno sindacalizzate).
I risultati suggeriscono che i guadagni di produttività possono essere molto diversi da un settore all’altro – e risultare minori soprattutto nei servizi, in cui è particolarmente difficoltoso misurare la produttività aggregata – e, come nel caso delle politiche pubbliche, possono essere vanificati se le imprese intendono perseguire con un unico strumento (il premio variabile, appunto) più obiettivi, come l’incentivazione dello sforzo e la suddivisione del rischio.
IL CLIMA DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI
L’accordo ha trovato il consenso di gran parte delle associazioni di categoria e dei sindacati, con l’importante eccezione della Cgil. La divisione all’interno del sindacato non è certo una novità,  segna piuttosto il clima delle relazioni industriali degli ultimi anni, vale tuttavia la pena chiedersi cosa possa comportare per la buona riuscita dell’accordo. Vista la natura negoziale dell’impianto complessivo che delega alla contrattazione collettiva materie importanti e finora regolate (almeno in parte) dalla legge, non c’è dubbio che un clima collaborativo e non conflittuale delle relazioni industriali sia un elemento importante per il buon funzionamento degli istituti previsti dall’accordo e per il raggiungimento degli obiettivi. Il fatto che un sindacato ben radicato nella grande impresa non abbia aderito all’accordo costituisce indubbiamente un elemento di forte incertezza, che potrà incidere, a livello locale, sia sulla diffusione sia sull’efficacia della contrattazione di secondo livello.
DETASSAZIONE E DECONTRIBUZIONE DELLA RETRIBUZIONE VARIABILE
In ultimo, deve essere valutato se l’impiego di risorse pubbliche per incentivare la contrattazione di secondo livello sia efficiente e se le modalità di implementazione siano efficaci. È forse il punto più controverso dell’intero accordo. Da un lato, non è chiaro se e perché lo Stato debba intervenire, con agevolazioni fiscali, nell’organizzazione (interna) del lavoro delle imprese. Se un’impresa decide di erogare ai propri dipendenti premi retributivi legati ai risultati, perché la scelta organizzativa, diretta a rendere più efficiente e competitiva la produzione, dovrebbe essere sovvenzionata con soldi pubblici? Il rischio, in questo caso, è quello di sovvenzionare decisioni che le imprese (nel loro interesse) avrebbero preso comunque; e anche quando si riuscisse a indurre imprese che altrimenti non l’avrebbero fatto ad adottare schemi retributivi incentivanti, la decontribuzione incondizionata a tutte le aziende sembra un modo molto costoso per raggiungere un obiettivo modesto. L’accordo sulla produttività è inoltre in controtendenza rispetto a quello che succede in altri paesi europei: per esempio in Francia (che vanta una lunga tradizione di partecipazione dei lavoratori ai risultati d’impresa attraverso l’“intéressement”), gli oneri contributivi sono passati nel giro di pochi anni dal 2 per cento all’attuale 20 per cento. (3) D’altro lato, la detassazione della parte retributiva variabile introduce un elemento di forte incertezza nel sistema impositivo e si presta ad abusi generalizzati. Infatti, sia da parte del lavoratore (maggiore retribuzione netta) sia da parte dell’impresa (minor costo del lavoro) vi è un forte incentivo a colludere, dichiarando come “variabili” quote crescenti di retribuzione, anche se variabili non sono. Ed è difficile capire come l’amministrazione fiscale potrà distinguere tra componenti retributive effettivamente variabili e componenti fisse. In un paese in cui l’evasione e l’elusione fiscale raggiungono livelli record, non si sentiva veramente il bisogno di introdurre anche nel lavoro dipendente (finora essenzialmente esente) potenziali forme di abuso fiscale.
Se invece l’obiettivo, non dichiarato, era semplicemente quello di ridurre il cuneo fiscale, meglio sarebbe stato renderlo più trasparente e non limitato alle sole imprese in cui viene svolta la contrattazione di secondo livello, introducendo ovvie distorsioni nelle condizioni di competitività delle imprese.
(1) Per una rassegna del dibattito si veda Boeri, T. Lucifora, C. Murphy, K. Executive and Employees Compensations: Productivity, Profits, and Pay, Oxford University Press, in corso di pubblicazione, 2013
(2) Lucifora, C. e F. Origo, “Performance Related Pay and Firm Productivity: New Evidence from a Quasi-Natural Experiment in Italy”, IZA DP 6483, 2012
(3) François Meunier "L’étrange fiscalité de l’intéressement", Telos, 28 novembre 2012

Sull'apertura di domenica dei negozi


di Andrea Moro (Fermare il declino)

I lavoratori del settore commerciale

Cominciamo dunque dall'affrontare i problemi dei lavoratori del settore che si sono trovati, nel giro di pochi mesi, di fronte ad un drastico cambiamento di condizioni lavorative. Molti sono stati costretti ad accettare la turnazione domenicale e festiva in cambio di una piccola o spesso nulla compensazione monetaria. In questo periodo di crisi prolungata, senza alternative accettabili.
Non credo sia in discussione la moralità del lavoro domenicale: esistono eserciti di persone che hanno sempre lavorato nei giorni di festa per il beneficio di chi riposa: operatori del turismo, conduttori di treni e autobus, pasticcieri, baristi, preti, dottori ed infermiere ... Il problema non è il lavoro domenicale in sé, ma la transizione per chi si trova in un settore soggetto a cambiamento. La situazione di questi lavoratori non è dissimile da quella sperimentata continuamente da chi lavora in industrie soggette ad innovazione. L'innovazione, in questo caso è l'apertura domenicale; poco importa che l'idea fosse pre-esistente: aprire di domenica era vietato da leggi e/o regolamenti in precedenza, ma ora non lo è più. Eliminare questo divieto corrisponde ad una innovazione che cambia le condizioni lavorative, o perché le condizioni lavorative peggiorano, come nel caso delle aperture domenicali, o perché la domanda del prodotto scompare del tutto, come in molte altre industrie soggette a processi innovativi. Gli esempi sono innumerevoli. Peggio si sono trovati gli stampatori di dischi in vinile all'introduzione del compact disk. Peggio i programmatori del motore di ricerca Altavista (e chi se lo ricorda?) quando Google diventò il motore dominante. Peggio i lavoratori di Myspace dopo l'avvento di Facebook. Nessuno si sognerebbe in questi casi di pretendere di mantenere tecnologie obsolete per mantenere le condizioni lavorative dei lavoratori delle imprese che usavano processi o strumenti divenuti obsoleti. Rimangono però i problemi per chi subisce l'innovazione. Sorgono spontanee alcune domande. 
Ma l'innovazione non dovrebbe farci stare tutti meglio? L'innovazione fa stare meglio quasi tutta la popolazione tranne i lavoratori delle industrie diventate obsolete, che devono reinventarsi un lavoro o accettare condizioni lavorative o salariali peggiori. Le aperture domenicali degli esercizi commerciali sono una comodità per chi non riesce a fare la spesa durante la settimana, ma un peso, spesso insopportabile, per le cassiere e commesse abituate ad avere le domeniche libere. Come confrontare i vantaggi degli uni con il peso degli altri? Qualcuno risolve la questione sostenendo che esistono altri vantaggi, collettivi, oltre a quelli personali. 
Le aperture domenicali non sono un modo per sollecitare i consumi e per rilanciare l'economia? Domanda difficile; nessun economista crede che basti "consumare" per rilanciare l'economia, ma qualcuno pensa che la crescita derivi da maggiori consumi. Nel caso dei supermercati, è ragionevole pensare che la domanda di cibo e beni di consumo domestico sia abbastanza fissa; chi compra la frutta di domenica finirà per comprarne meno di Martedì. Questo è vero, ma non vanno sottovalutati guadagni di efficienza in senso lato: se so che posso fare la spesa di Domenica, al Martedì posso fare cose che non avrei fatto altrimenti: posso stare più a lungo al lavoro, posso portare i bambini a scuola di pianoforte, il che beneficia sia i bambini, sia gli insegnanti di musica, sia i produttori di pianoforti. Insomma si creano opportunità che non sarebbero state possibili nel regime precedente.
Ma non si tratta di vantaggi minuscoli rispetto al peso sopportato dalle commesse? Quando troveranno il tempo di dedicarsi alla loro famiglia? Domande difficili, perché chiedono di comparare vantaggi e svantaggi di persone diverse. A naso, uno potrebbe dire che nel lungo periodo si specializzeranno in queste professioni persone che non hanno figli da accudire la Domenica, o comunque persone che non hanno particolarmente a cuore riposare di Domenica piuttosto che di Martedì. Oppure persone con figli che preferiscono avere un giorno infrasettimanale libero per accompagnarli alla lezione di musica. Nessuno si è mai preoccupato dei figli dei pasticcieri, anche perché questi ultimi sapevano fin dall'inizio, quando hanno scelto la loro professione, che i pasticcini la gente li compra la domenica dopo la messa. I commessi dei supermercati invece devono gestirsi una transizione difficile.
Un cambiamento sostanziale delle condizioni contrattuali non è del tutto diverso da un licenziamento e andrebbe trattato in modo simile, facendo attenzione a possibili abusi. In un sistema ideale, come quello proposto da chi ha in mente sistemi di flexsecurity, come noi di fermare il declino, la transizione dovrebbe essere coperta da una assicurazione sulla disoccupazione che protegga i consumi di chi si trova in condizioni simili e finanzi, per chi lo voglia, un apprendistato per chi è disposto a cambiare professione. Tutto questo, lo ammetto, non è senza costi, perché la gente è legata al proprio lavoro. Esistono, ovviamente, persone che non possono essere protette da questi meccanismi, come i piccoli esercenti travolti dall'impossibilità di tenere sempre aperti i loro piccoli negozi. La situazione di queste persone è più difficile anche perché si tratta di persone che conducono un'attività imprenditoriale che è per sua natura rischiosa. A queste persone non resta che reinventare il proprio lavoro e trovare una nicchia in cui specializzarsi per mantenere la propria attività. Anche qui negli Stati Uniti, dominati dai centri commerciali e dai supermercati aperti 24 ore, esistono piccoli negozi che riescono a sopravvivere grazie al supporto al cliente e alla specializzazione. 

I ritmi regolari della vita di un tempo

Non so se ho convinto gli scettici, ma passiamo alla seconda fonte di disagio: la perdita del mondo romantico in cui la Domenica deve (semplificando) essere dedicata al riposo. L'apertura domenicale è frutto del consumismo e della frenesia moderna che ci porta a spendere e consumare, ogni giorno. È progresso questo?. Di primo acchito questa è una posizione anti-libertaria. L'obiezione immediata da commento facebook-style sarebbe: "chi ti obbliga a fare la spesa di domenica? Lasciala fare a chi vuole farlo e vai a farti la scampagnata". Ma c'è un problema più serio. La scampagnata io me la godo se la faccio con i miei amici. Se i miei amici e i miei vicini fanno lo shopping di domenica o peggio se devono lavorare (quelli che fanno lo shopping di domenica non sono miei amici), non c'è nessuno che venga a fare il pic-nic in collina con me. Questa è una obiezione più seria, alla quale alcuni economisti hanno pensato seriamente. Per semplicità considero qui risolto il problema (descritto nella sezione precedente) della "transizione" per i lavoratori correntemente impiegati nel settore. 
Un'idea, presentata per esempio in un paper di Glaeser, Scheinkman e Sacerdote (Journal of the European Economic Association, 2003 - in inglese come tutti gli articoli che linkerò in seguito) è che in presenza di interazioni sociali esistono "complementarietà" fra le scelte delle persone. In parole povere, se io scelgo di prendermi una giornata libera al Martedì per andare a fare una passeggiata in montagna, lo stesso cerca di fare il mio amico perché è più bello passeggiare assieme che da soli. Il problema è come coordinarsi. Come facciamo se uno dei nostri capi ci concede la giornata libera il Martedì e l'altro la Domenica? Se queste "complementarietà" sono sufficientemente forti, allora può avere senso per un governo benevolente obbligare i suoi cittadini a prendere tutti il giorno di riposo lo stesso giorno (per esempio la Domenica), perché le perdite di efficienza che derivano dall'obbligare a non lavorare chi vuole farlo sono più che compensate dal guadagno di "benessere" derivante dal fare la gita tutti assieme. La regolamentazione governativa risolve il problema di coordinamento e tutti sono felici (tranne qualche raro a-sociale che si ostina a pretendere di lavorare la Domenica). 
Questo in linea teorica. Empiricamente, gli economisti cercano di studiare queste domande analizzando per esempio le differenze fra le attitudini al lavoro fra Stati Uniti ed Europa. Negli Stati Uniti si lavora di più (e non solo di Domenica), ma non è sempre stato così: all'inizio del XX secolo e fino alla prima guerra mondiale si lavorava di più in Europa. Le ore medie annuali lavorate in tutti gli anni Sessanta e fino all'inizio dei Settanta erano più o meno le stesse in Italia, Stati Uniti, Francia, Germania, ma il divario è poi aumentato (vedi figura). Difficile pensare dunque che si tratti di differenze culturali. 
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Secondo alcuni (Ed Prescott, per esempio, in questo articolo del 2004, anch'esso in inglese), il divario attuale è quasi interamente spiegato dalle differenza fra i tassi marginali sulle imposte sui redditi. Se gli europei pagassero le tasse degli americani, lavorebbero di più. Alesina, Glaeser e Sacerdote in un articolo del 2006, sostengono che le stime di Prescott, basate sulla calibrazione di un modello "macro" economico richiedono una "reattività" (noi la chiamiamo elasticità) dell'offerta di lavoro ai cambiamenti di tasse e salari che non trova riscontro nella maggioranza degli studi microeconomici (cioé che si basano su dati individuali), con qualche eccezione a noi vicina. In sostanza, secondo i tre economisti, quando si guarda ai dati di come gli individui reagiscono ad un aumento delle imposte, non si riscontrano cambiamenti nell'offerta di lavoro così grandi come quelli che riscontra Prescott.
Alesina, Glaeser e Sacerdote suggeriscono che le differenze inter-continentali sono in realtà spiegate principalmente dalla maggiore forza dei sindacati nel vecchio continente e da maggiore regolamentazione del lavoro, che impone chiusure domenicali e feste comandate più che negli Stati Uniti. Come riconciliare le due visioni? Una possibilità è l'esistenza di un "moltiplicatore sociale" come suggerito dalla teoria descritta sopra. Individualmente un lavoratore può reagire poco ad un aumento di imposte - e questo è quello che risulta dagli studi microeconomici , ma collettivamente (a livello "macro"), siccome troviamo beneficio dal lavorare meno - ma assieme - l'effetto è grande. 
Come spiegato sopra, la regolamentazione del riposo e delle vacanze non è necessariamente un male, perché ci piace andare al cinema e a mangiare la pizza con gli amici, non da soli. Le regolamentazioni servono ad aiutare a coordinarci ad andarci i Sabati e le Domeniche piuttosto che i Martedì. Se così fosse, potrebbe essere vero che gli europei lavorano meno perché sono tassati di più come sostiene Prescott, ma è soprattutto vero, sostengono Alesina & Co., che gli americani lavorano di più perché, in assenza di regolamentazione sul vacanze e riposo settimanale, non riescono a coordinarsi per andare in vacanza assieme.  Vorrebbero lavorare meno e sarebbero più felici facendolo assieme, ma non sanno cosa fare a casa da soli, quindi meglio lavorare. 
A mio parere personale, questo ragionamento è limitato ed insoddisfacente. È sicuramente meglio mangiare la pizza con gli amici che da soli, ma per farlo non devo necessariamente obbligare tutto il resto del pianeta a prendere il giorno di vacanza lo stesso giorno in cui lo facciamo io e la mia cerchia di compari. Anche la scelta degli amici è "endogena": se condividono i miei valori, avranno già scelto lavori con riposo domenicale, dei quali esiste abbondante domanda (questo è un ulteriore costo nella transizione, perché gli amici me li sono già scelti, eravamo abituati ad andare al cinema di domenica, ora loro non possono più). Il mondo non vive in un'anarchia totale riguardo quale giorno della settimana sia dedicato al riposo. Anche negli Stati Uniti, le scuole, molti uffici e negozi sono chiusi il Sabato e soprattutto la Domenica, ed esiste, entro certi limiti, la possibilità di scegliere il lavoro anche secondo queste dimensioni. Ora che non si fanno più le vacanze solo in Agosto nemmeno in Italia, numerose famiglie riescono a coordinarsi per fare le vacanze assieme, risparmiando, in altri periodi dell'estate e delll'anno. 
C'è poi un'ultimo aspetto, quello della libertà personale e d'impresa. Davvero crediamo che sia opportuno che il governo o il parlamento decidano chi possa e cosa si possa fare un certo giorno della settimana? Se un commerciante vuole lavorare, ed un consumatore acquistare, o fare qualsiasi attività durante un particolare giorno della settimana, perché lo stato dovrebbe avere la capacità di impedirglielo? A me sembra assurdo e pericoloso, perché lascerebbe spazio a limitazioni molto più gravi. Questo aspetto mi sembra dominante rispetto ai deboli vantaggi derivanti dal coordinamento. 
Lo stesso ragionamento dovrebbe valere per chi si sente a disagio di fronte all'esigenza consumistica di avere tutto, subito, a disposizione. Alla fine, ogni argomento contrario all'apertura sbatte contro la libertà personale, che non impedisce a chi lo vuole di vivere liberamente, riunendosi con chi la pensa allo stesso modo. 
Tornando alle preoccupazioni per i lavoratori costretti alle domeniche in negozio. Se avessi amiche/amici nel settore, darei loro un avvertimento ed un consiglio. L'avvertimento è che nonostante le proteste e un inizio forse dal successo limitato, non torneremo al regime precedente. Fare la spesa quando si vuole (magari la Domenica sera, di ritorno dal pic-nic in montagna) è una comodità cui diventa difficile rinunciare dopo averla sperimentata per un po'. Lo stesso vale, ovviamente, per i servizi pubblici, le banche, etc... (che oramai, dove internet funziona, non necessitano nemmeno di strutture fisiche "aperte" durante la settimana e di impiegati allo sportello). Il consiglio è che se davvero il riposo domenicale è irrinunciabile, forse occorre cominciare a cercare un lavoro diverso.  Un consiglio triste, penoso, irriverente, ma davvero non c'è alternativa. L'innovazione è anche distruttiva e la state subendo come molti altri. 

venerdì 7 dicembre 2012

Mercato del lavoro, cronache dall'estero


BELGIO:
Carne da lavoro

4 ottobre 2012
DE STANDAARD BRUXELLES



Nel mattatoio di Anderlecht, a Bruxelles, ottobre 2012.
Nel mattatoio di Anderlecht, a Bruxelles, ottobre 2012.
Leo De Bock
Nei mattatoi e al mercato della carne di Anderlecht decine di donne romene hanno colmato i vuoti lasciati dai lavoratori belgi. I padroni ne approfittano per imporre salari da fame e condizioni inaccettabili.
De Standaard
C’è qualcosa di marcio nei mattatoi di Anderlecht. Non si tratta delle carcasse degli animali, ma dallo sfruttamento di esseri umani e dal dumping sociale di cui sono vittime soprattutto le donne romene. 
Passeggiando davanti ai mattatoi di Anderlecht durante le ore di attività si incontra gente di tutte le razze intenta ad acquistare carne. I prodotti sono venduti a prezzi relativamente bassi, e il mercato si trova proprio al centro del quartiere multietnico. Il sito è amministrato da Abatan Sa, e le aziende che lo utilizzano per la macellazione sono due: Abaco Sprl (bovini) e Seva Sprl (suini). 
Ci sono anche circa 45 piccole e medie imprese che affittano locali per dividere in tagli la carne di manzo e maiale prima di venderla al dettaglio. A quanto pare sono proprio queste piccole aziende a impiegare in massa i lavoratori arrivati dall’Europa dell’est, soprattutto dalla Romania. Il motivo è semplice: per loro le regole non valgono. Almeno questo è ciò che affermano due donne che lavorano al mattatoio: “siamo molte, e nessuna di noi ha un contratto. Lavoriamo a nero e siamo sottopagate". 
Una di loro guadagna 8 euro l’ora, l’altra appena 6. La loro paga è nettamente inferiore al salario minimo. Vogliono restare anonime. “Si, siamo sfruttate, ma non diciamo niente per paura di essere espulse. E poi c’è gente pronta a sostituirci immediatamente, e non possiamo permetterci di ritrovarci senza lavoro”. 
Secondo Codruta-Liliana Filip, dell’associazione delle donne del Partito socialdemocratico romeno, le storie delle romene [che lavorano al mattatoio] sono tutte uguali: spesso non hanno un contratto, sono clandestine e sottopagate, la loro giornata lavorativa è molto lunga, hanno diritto a una pausa pranzo di appena 10 minuti e molte volte lavorano anche nel fine settimana. Di ferie pagate e bonus di fine anno nemmeno a parlarne. Molti datori di lavoro gli impediscono addirittura di parlare la loro lingua. 
“Una volta ho cercato di avvicinare alcune donne che vendevano carne”, racconta Codruta-Liliana Filip. “Volevo invitarle a un evento culturale romeno. Nel giro di un minuto si è presentato il datore di lavoro e mi ha chiesto di tradurre tutto ciò che avevo appena detto, 'per essere sicuro che avevo buone intenzioni'. Difficile capire cosa intendesse”. 
“Lavoro dieci ore al giorno”, spiega la donna che guadagna otto euro all’ora. “Io a volte anche undici, soprattutto durante il fine settimana – le fa eco l’altra – a volte lavoro anche come venditrice, e guadagno un po’ meglio”.
Una delle donne si mostra comprensiva verso il suo datore di lavoro. “È colpa della crisi economica. Le macellerie hanno costi elevati, come le parcelle dei veterinari. Se ci pagassero 13 euro l’ora forse non guadagnerebbero più. E comunque guadagno più qui che in Romania. Nel mio paese arrivi a stento a 150 euro al mese, anche se hai un diploma. Non c’è da stupirsi se cerchiamo un futuro altrove”. 
“Ci sono problemi dovunque, ma soprattutto nel settore della lavorazione della carne. Le persone lì lavorano in condizioni molto difficili, e le donne sono le più vulnerabili. In Belgio c’è grande carenza di macellai e molte donne romene possono soddisfare questa necessità. Ma non vengono trattate in modo equo”, spiega Codruta-Liliana Filip. 
"Capisco la loro paura di parlare. Possono essere facilmente sostituite da altre persone pronte ad accettare le condizioni imposte dai datori di lavoro. In definitiva sono “contente” di potersi guadagnare i soldi per mangiare e per risparmiare qualcosa. Ma dobbiamo reagire a questa situazione, anche perché le imprese che trattano il loro personale nel modo dovuto sono vittime di una concorrenza sleale. È nell’interesse di tutti combattere per ottenere le stesse condizioni di lavoro. Altrimenti significa accettare il dumping sociale e la truffa e le sofferenze che generano”. 
“Non voglio infangare i datori di lavori, e nemmeno giudicarli. Sono cosciente delle difficoltà sul mercato del lavoro europeo e che il Belgio deve affrontare la concorrenza degli altri stati”. In particolare l’industria tedesca delle trasformazione della carne, per cui non esiste un salario minimo, stravolge il mercato. “Non è un problema belga, è europeo”.
L'articolo è stato ripubblicato con il consenso dell'editore. Tutti i diritti riservati.
Traduzione di Andrea Sparacino

giovedì 6 dicembre 2012

Stop ai lavori forzati per i disoccupati in Repubblica Ceca

Articolo di Lidové noviny  del 27 novembre, traduzione di Presseurop.eu


Il 27 novembre la Corte costituzionale ceca ha parzialmente bocciato la legge che punisce i disoccupati che rifiutano di accettare un lavoro “forzato”. “La decisione cruciale è l’abolizione del lavoro di interesse generale che i disoccupati erano costretti a svolgere senza un salario”, spiega Lidové Noviny
Il governo modificherà la legge che obbligava tutti gli individui senza un lavoro da più di 3 mesi ad accettare o trovare un impiego da 20 ore a settimana, come la pulizia delle strade o delle scuole, pena il ritiro del sussidio di disoccupazione e dell’assistenza sociale. L’obiettivo della legge, entrata in vigore nel gennaio 2012, era quello di ridurre il numero di disoccupati di lunga data e volontari e nel frattempo colpire il lavoro nero. A ottobre i disoccupati erano 496.762, vale a dire l’8,5 per cento della popolazione attiva. Secondo il quotidiano, con il loro verdetto i giudici costituzionali
hanno assimilato il trattamento riservato dalle autorità ai disoccupati ai lavori forzati. Le persone erano costrette a lavorare senza uno stipendio e spesso indossando una divisa simile a quella dei condannati a pene sostitutive, il che costituisce chiaramente un attacco alla loro dignità. Secondo i giudici è inaccettabile, considerando che si tratta di persone che hanno lavorato per anni o decenni. Inoltre gli impieghi erano assegnati a discrezione delle autorità. 
Il verdetto della Corte costituzionale arriva in un momento segnato dalle polemiche su un’altra importante riforma, quella che permetterà di eleggere direttamente il presidente della repubblicaSecondo Lidové Noviny i cechi sono una “nazione di manipolatori dilettanti della costituzione”.

mercoledì 5 dicembre 2012

Nokia vende la sede per rilanciarsi con telefoni Made in Europe

Articolo su Ilpattosociale di oggi di Carlo Sala 

Nokia vende la sede per rilanciarsi con telefoni Made in Europe 

Il colosso finlandese cerca liquidità per rispondere alla concorrenza Apple e coreana 

5/12/12
L’Iphone sfratta la Nokia. Entro l’anno, il celeberrimo produttore finlandese di telefoni cellulari cederà il proprio quartiere generale di Espoo, dove opera dal 1997, per una cifra compresa tra i 170 e i 220 milioni di euro. Come già fece il New York Times in cerca di liquidità, la sede venduta sarà poi presa in affitto dallo stesso venditore. “Abbiamo avuto un ampio processo di vendita con gli investitori, sia finlandesi che stranieri e siamo molto soddisfatti di questo risultato. Possedere beni immobili non fa parte degli obiettivi di Nokia. Continueremo comunque ad operare delle sedi per lungo tempo” - ha dichiarato l’amministratore delegato Timo Ihamuotila. 
All’origine di questa scelta si intuisce il desiderio di trovare risorse per rilanciare la stessa Nokia. Primo venditore di telefonini al mondo, Nokia vede infatti la propria posizione sempre più insidiata dalla Apple, con l’Iphone, e ancor più dai marchi asiatici come Samsung: in calo i vecchi cellulari utilizzabili solo come telefoni, gli smartphone – soprattutto quelli con sistema Android - trovano nell’Asia, anzitutto in Cina, il mercato in più forte espansione, ma si tratta di un mercato piuttosto ostico per la casa finlandese (e al contrario, in controtendenza rispetto al resto del mondo, piuttosto permeabile al sistema IOs, quello utilizzato da Apple per l’Iphone).
Chiuso il quarto e ultimo trimestre del 2011 come leader del mercato mondiale nella produzione di telefonia mobile – con una quota del 26,6%, che attestava che ogni 4 telefonini venduti al mondo più di uno era made in Finland, per un totale di 113 milioni di pezzi venduti nel trimestre considerato – nel terzo trimestre di quest’anno Nokia ha venduto soltanto 4,1 milioni di smartphone. E sebbene quest’ultimo dato sia estremamente parziale, perché non tiene conto delle vendite di cellulari “old style” privi di connessione a Internet, conferma la necessità per l’azienda europea di risalire la china. I cellulari “old style” sono infatti un prodotto ormai in via di superamento da parte della domanda di mercato, sostituiti appunto da quegli smartphone rispetto ai quali Nokia arranca. 
Il difficile momento della Nokia, tecnologico anzitutto e finanziario di conseguenza, è attestato dagli ultimi dati di bilancio disponibili, relativi all’esercizio 2011: il fatturato dell’intero anno è sceso a 38,6 miliardi di euro (il 9% in meno del 2010), con perdite di esercizio per 1,5 miliardi contro i profitti per 1,3 miliardi dell’anno precedente; gli smartphone distribuiti sono stati 19,6 milioni, meglio delle attese per quell’anno ma comunque ben lontano dai 37 milioni di pezzi che la casa di Cupertino ha messo in circolazione nello stesso lasso di tempo. 
La prima mossa di Nokia per restare competitiva sul mercato globale è stato un accordo con l’americana Microsoft da cui nel quarto trimestre 2011 sono arrivati 180 milioni di euro e da cui sono scaturiti i modelli Lumia 710 (un milione di pezzi venduti in 2 mesi) e Lumia 800. Ma lo sforzo per tenere il passo della concorrenza è ancora in corso e per non uscire dal core business la scelta è stata appunto quella di uscire dalla (proprietà della) propria sede. 
Mentre la Finlandia medita di uscire dall’euro, dalla tenuta della sua azienda più famosa dipende la capacità dell’Europa di non uscire da un settore tecnologico decisamente trainante per l’economia mondiale.
 

Carlo Sala

domenica 2 dicembre 2012

TAGLIO DEL CUNEO FISCALE: I VANTAGGI E LE RISORSE


lavoce.info

di Mirko Cardinale 23.11.2012


La riduzione del cuneo fiscale è un nodo fondamentale per la crescita del nostro paese. Eppure finora non è stata una priorità nell'agenda del Governo. Le risorse necessarie per un intervento significativo, magari destinato ai lavoratori più giovani. E l'impatto sulle pensioni future.
La riduzione del cuneo fiscale entra finalmente nel dibattito politico con la proposta di destinare 1 miliardo dalla legge di stabilità. La notizia è sicuramente positiva, anche se il tema avrebbe potuto essere affrontato prima dal Governo, magari in occasione della riforma del mercato del lavoro o del decreto sviluppo.

UN OSTACOLO ALLA COMPETITIVITÀ

Si tratta di un nodo cruciale, che spiega la difficoltà delle aziende italiane a competere sui mercati internazionali. Secondo gli ultimi dati Ocse, il prelievo forzoso sul lavoro in Italia è tra i più alti dell’Eurozona e il gap appare ancora più elevato se confrontato con paesi quali il Regno Unito, il Giappone o gli Stati Uniti. Ad esempio, il costo del lavoro in Italia per un lavoratore non sposato è circa due volte lo stipendio netto contro un rapporto pari a 1,7 per la media dell’area euro e a circa 1,5 per la media dei Paesi Ocse.
La riduzione del cuneo fiscale avrebbe pertanto dovuto rappresentare un’assoluta priorità nell’agenda di Governo per promuovere la crescita. A differenza di altri provvedimenti strutturali si tratta infatti di un intervento di impatto immediato che metterebbe più soldi nella busta paga dei lavoratori o più risorse a disposizione delle aziende per investire e assumere nuovo personale. Invece finora se n’è parlato pochissimo e addirittura alcuni interventi, come ad esempio l’aumento delle aliquote per i parasubordinati, si sono mossi nella direzione opposta.
Ma quante risorse sono necessarie per un intervento significativo sul cuneo fiscale? E quale sarebbe l’impatto sul sistema contributivo?

LE RISORSE NECESSARIE

Secondo gli ultimi dati Istat (del 2011) il montante aggregato dei contributi sociali si aggira intorno ai 216 miliardi, pari al 13,6 per cento del Pil. Appare quindi evidente che un intervento di 1 miliardo (0,5 per cento del totale) ha poche probabilità di incidere sul costo del lavoro in misura significativa: anche una riduzione di mezzo punto percentuale dei contributi pensionistici richiederebbe un intervento di oltre 3 miliardi.
Per incidere in misura sostanziale su consumi, produttività del lavoro e crescita occorrerebbero maggiori risorse. Come mostra la tabella 1, una riduzione del costo del lavoro pari a 2,5 punti percentuali inizierebbe ad avere un impatto aggregato di un certo rilievo. Infatti a un lavoratore con stipendio medio intorno ai 30mila euro porterebbe 250 euro all’anno in più in busta paga, oltre a far risparmiare 500 euro al datore di lavoro.
Un’opzione particolarmente interessante per ridurre il cuneo fiscale potrebbe essere un intervento esclusivamente mirato ai lavoratori più giovani. Innanzitutto, l’intervento potrebbe essere di portata maggiore a parità di risorse poiché i contributi a carico dei lavoratori fino a 40 anni sono di circa 89 miliardi (il 41 per cento del totale). In secondo luogo, la misura potrebbe finalmente incidere in modo sostanziale sulla disoccupazione giovanile (pari al 36 per cento secondo le ultime stime Istat) e sulla “fuga dei cervelli”, ovvero i laureati più brillanti che sono sempre più propensi a trasferirsi all’estero alla ricerca di migliori opportunità. Infine, permetterebbe di massimizzare l’impatto sui consumi, visto che la propensione al consumo è maggiore per le generazioni più giovani, come documentato da alcuni recenti studi della Banca d’Italia. (1)

IL NODO DELLA COPERTURA

Il nodo rimane il finanziamento di un simile intervento. Una riduzione di 5 punti percentuali per i lavoratori con meno di 40 anni richiederebbe circa 13,7 miliardi (0,9 per cento del Pil) mentre la “terapia d’urto” di una riduzione di 10 punti percentuali (1,7 per cento del Pil), che avvicinerebbe l’Italia alla media Ocse per i lavoratori più giovani, costerebbe 27,5 miliardi. E un intervento esteso anche ai lavoratori più anziani richiederebbe 23,6 miliardi, ipotizzando un taglio di 5 punti percentuali dei contributi per i lavoratori fino a 40 anni e un taglio di 2,5 punti per quelli più anziani.
Non si tratta di cifre impossibili visto che, ad esempio, la Francia ha recentemente annunciato un intervento di 20 miliardi per favorire la competitività delle sue aziende. E se non fosse per i vincoli imposti dai mercati finanziari, dall’entità del debito pubblico e dall’Eurozona, la copertura per tali interventi potrebbe arrivare automaticamente grazie all’impatto sulla congiuntura economica e, di conseguenza, sulle entrate pubbliche. Tuttavia, nella realtà italiana di oggi è chiaro che non è una strada perseguibile.
Le vie per reperire i fondi necessari sono molteplici, a patto che l’azione di Governo assegni la giusta priorità alla riduzione del costo del lavoro. In prima battuta, alla riduzione del cuneo fiscale si potrebbero destinare le risorse recuperate con la spending review. In secondo luogo, si potrebbe utilizzare una parte dei fondi recuperati attraverso il programma di dismissioni del patrimonio immobiliare dello Stato (15-20 miliardi all’anno secondo una recente stima presentata dal ministro del Tesoro Vittorio Grilli) e le iniziative volte a migliorane la redditività (secondo le ultime stime un patrimonio di 700 miliardi produce attualmente un reddito inferiore all’1 per cento. (2)
Se nessuna di queste opzioni fosse sufficiente, occorrerebbero scelte più difficili. Una potrebbe essere ristabilire un principio di equità intergenerazionale attraverso un prelievo forzoso sulle pensioni attualmente erogate in misura più sproporzionata rispetto ai contributi versati durante la vita lavorativa. Occorrerebbe uno studio più approfondito, tuttavia i dati suggeriscono che esistono spazi di manovra per una strategia di questo tipo, visto che l’Italia ha una spesa pensionistica pari al 17 per cento del Pil, ovvero la più alta tra tutti i paesi Ocse. Inoltre, l’Italia spende oltre 35 miliardi (il 13 per cento del totale della spesa pensionistica) per erogare pensioni al di sopra di 3mila euro al mese, una soglia che con tutta probabilità sarebbe stata difficile da raggiungere con il sistema contributivo.

L’IMPATTO SUL SISTEMA CONTRIBUTIVO

Nel sistema contributivo introdotto dalla riforma Dini una riduzione dei contributi previdenziali comporta, a parità di altri fattori, una riduzione del montante contributivo e quindi delle pensioni future.
Su questo punto si possono fare due considerazioni. La prima è che, secondo la teoria del ciclo vitale di uno dei più importanti economisti del dopoguerra, Franco Modigliani, un sistema di risparmio forzoso che preveda contributi crescenti in funzione dell’età sarebbe preferibile perché di solito le generazioni più giovani hanno maggiori vincoli di liquidità, mentre la capacità di risparmio aumenta nella fascia di età tra i 40 e i 60 anni. Quindi sarebbero auspicabili aliquote differenziate a seconda dell’età . La seconda è che la riforma Dini ha messo in stretta relazione la rivalutazione del montante contributivo e la crescita del Pil. Come mostra la tabella 2, il montante contributivo accumulato da un ipotetico lavoratore che entrasse nel mercato del lavoro nel 2012 sarebbe addirittura superiore in ipotesi di abbassamento dei contributi di 10 punti percentuali, a patto che, a parità di altre variabili, il tasso di crescita tendenziale del Pil reale contemporaneamente salisse dallo 0,5 al 3 per cento.

TABELLA 1
Fonte: Elaborazione su dati ISTAT (2011). Incremento busta paga si intende al lordo dell'IRPEF
Fonte: Elaborazione illustrativa basata sul sistema contributivo della riforma Dini (rivalutazione del montante in funzione della media quinquennale del PIL nominale)
(1) Indagine sui bilanci delle famiglie italiane, Banca d’Italia (2010)
(2) Dato tratto da “Lo stock del debito pubblico si può abbattere con misure straordinarie?”, atti del convegno organizzato dal Cnel il 5 giugno 2012

sabato 1 dicembre 2012

Generazione Neet




28 novembre 2012
TROUW AMSTERDAM

In Europa ci sono 14 milioni di giovani che non studiano e non lavorano. Con la crisi il fenomeno cresce di anno in anno, assumendo i contorni di una vera emergenza sociale.
Bologna University students at Piazza Santo Stefano.
Bologna University students at Piazza Santo Stefano.
Micrus
Un giovane napoletano disoccupato da tempo; una ragazza madre della Sassonia-Anhalt; un liceale di Lelystad che ha abbandonato la scuola; e un depresso di Vilnius che poltrisce tutto il giorno. Sono tutti giovani a rischio, estranei al mondo del lavoro, e a causa del perdurare della crisi economica sono sempre  più emarginati dall’Europa che lavora.
“Le cifre dell’aumento della disoccupazione giovanile sono sconvolgenti. Oltretutto, in genere in questi calcoli si tiene conto soltanto di coloro che sono pronti a lavorare e vogliono lavorare, mentre è in forte aumento il numero di coloro che sono senza motivazioni e si stanno estraniando dal mercato del lavoro”, ci dice a telefono Massimiliano Mascherini dellaFondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, un’agenzia dell’Ue.  
Mascherini ha studiato i giovani che non lavorano, non studiano e non seguono alcuna formazione (“Not in employment, education or training”, Neet). Ha studiato il background e il comportamento di questi nullafacenti e ha calcolato quanto costano all’Europa. I risultati del suo studio sono preoccupanti. I giovani europei che non fanno nient’altro che guardare la televisione in pantofole sono 14 milioni, pari al 15,4 per cento dei giovani di età compresa tra i 15 e i 29 anni. Alcuni sono disoccupati per loro scelta, altri viaggiano, ma la maggior parte non fa niente. “Hanno scarsa fiducia nelle istituzioni e nel prossimo. Sono isolati socialmente e politicamente. E hanno anche maggiori probabilità di finire in reti malavitose”, dice Mascherini.
Bruxelles sta monitorando da vicino l’evolversi della situazione dei Neet, e vista la gravità della situazione è particolarmente preoccupata. Mascherini ha calcolato che la disoccupazione giovanile è costata agli stati membri 153 miliardi di euro nel 2011, mentre nel 2008 era costata “appena” 119 miliardi. Ma queste sono stime soltanto prudenziali, che tengono conto esclusivamente dei servizi sociali e non di altri aspetti quali la criminalità e l’assistenza sanitaria.
Tom Eimers, direttore del Knowledge Centre for Professional Education and the Labour Market (Kba) conosce fin troppo bene la realtà di questo gruppo problematico. “Si tratta spesso di giovani disabili, con difficoltà di apprendimento e/o complesse situazioni familiari”. Il sociologo apprezza l’utilità del nuovo studio: “Descrive l’abbandono scolastico e la disoccupazione come manifestazioni di uno stesso tipo di problema: i giovani rischiano di perdere contatto con la società. In tempi di crisi, i loro problemi aumentano”.
In particolare, colpisce molto il fatto che i giovani di varie regioni europee reagiscono alla propria situazione in maniera diversa. Nei paesi anglosassoni e dell’Europa centrale e orientale, i Neet sono passivi: sono delusi dalla società e dalle istituzioni e hanno la sensazione che nessuno voglia aiutarli. In reazione a ciò si allontanano dalla società, ritengono poco importante la politica e in buona parte non votano. Ciò che meglio li definisce è presto detto: guardare la televisione, isolarsi dalla società, starsene da soli.
Nei paesi del Mediterraneo, invece, questa difficile categoria di giovani èpoliticamente attiva. “Ci sono ottimi motivi per i quali i giovani scendono a manifestare in piazza in Spagna e in Grecia”, dice Mascherini. “Non sentono rappresentati i loro interessi dalla classe politica. Sono inclini all’estremismo. Se in quei paesi emergesse un blocco estremista, c’è il rischio non indifferente di un ampio supporto da parte di questi giovani”.
Benché si parli sempre della Spagna come di un paese dall’alto tasso di  disoccupazione, la situazione in Italia e in Bulgaria è ben più preoccupante, dice Mascherini. “Gli spagnoli sono relativamente ben istruiti e hanno molta esperienza: la disoccupazione giovanile da loro è una conseguenza diretta della crisi. I problemi in Bulgaria e in Italia sono di natura più strutturale. Istruzione e formazione non sono conformi  alle esigenze del mercato. In Italia i giovani se ne stanno tranquillamente a casa per anni, aggravando ancor più la situazione”.
Il sociologo Eimers preferisce spiegare la differenza tra insoddisfazione passiva e attiva in un modo diverso: “Penso che la frustrazione abbia maggiori probabilità di evolversi in rabbia nell’Europa del sud perché gli interessati sono molti di più. Se tutto a un tratto Nijmegen avesse un tasso di disoccupazione giovanile del 40 per cento, si vedrebbero anche qui i giovani sulle barricate. Ma se appartieni a un gruppetto esiguo, è più verosimile rinchiudersi in casa e provare vergogna”.

Eccezione scandinava

Secondo lo studio, l’unica regione europea nella quale i Neet non scenderanno esagitati in strada è la Scandinavia. “In quei paesi tutti i giovani sono coinvolti allo stesso modo nella società e nella politica, disoccupati e non, che abbiano lasciato la scuola o la continuino”, dice Mascherini. “Anche i paesi come Svezia e Danimarca vanno bene da questo punto di vista, dato che non c’è un grande divario tra la formazione e il mercato del lavoro. Le differenze rispetto alla Bulgaria e all’Italia non potrebbero essere maggiori”. E i Paesi Bassi? Mascherini crede che siano un paese esemplare. “Hanno pochi problemi strutturali, molti progetti e la situazione sotto controllo, anche se a causa della crisi il numero dei casi problematici è in aumento”.
Secondo Hennie van Meerkerk questo quadro è troppo roseo: è la presidente del consiglio di amministrazione di Scalda, una scuola di formazione vocazionale per chi ha abbandonato il liceo ed è disoccupato. Descrive la nuova categoria di giovani in questi termini: “Molti hanno problemi psicologici, soffrono di depressione e spesso entrano in contatto con le forze di polizia”.
La criminalità è una preoccupazione legittima, dice Mascherini: dal suo studio emerge infatti che questi giovani hanno maggiori probabilità di cadere vittime di tossicodipendenza e alcolismo. “Questo è allo stesso tempo causa e risultato dell’abbandono scolastico e della disoccupazione. I giovani nullafacenti che restano a casa dei genitori a lungo spesso cadono in depressione e cedono all’alcol e alle sostanze stupefacenti. E tramite la tossicodipendenza molti finiscono nel traffico di droga, mentre le ragazze spesso diventano madri single in giovane età”.
Van Meerkerk aggiunge: “I posti di lavoro a tempo indeterminato sono pochi. E a subirne maggiormente le conseguenze sono proprio questi giovani che non riescono ad esprimersi bene o hanno qualche difficoltà”. Anche Eimers lo conferma: “Il loro numero non sarà alto quanto in Spagna o in Italia, ma il numero di giovani che hanno problemi sta aumentando a causa della crisi. Si possono prevedere i problemi che incontreranno sul lavoro già quando vanno a scuola. Dovrebbe esserci più collaborazione tra autorità locali, agenzie che erogano sussidi e organizzazioni responsabili della frequenza scolastica obbligatoria. Per intervenire non bisogna aspettare che la situazione precipiti”.
Traduzione di Anna Bissanti