venerdì 30 novembre 2012

Produttività, più contratto e meno legge


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Più contratto, meno legge. E’ la principale novità sottoscritta, mercoledì 21 novembre, tra parti sociali e governo a eccezione della Cgil per il rilancio dell’azienda Italia.
di Daniele Cirioli
Nell’accordo con le «linee programmatiche per la crescita della produttività e competitività in Italia» c’è condivisione sulla necessità che la contrattazione collettiva venga esercitata «in piena autonomia» sulle materie che, direttamente o indirettamente, incidono sulla produttività e che oggi sono regolate in maniera prevalente o in via esclusiva dalla legge. Più contratto e meno norme, nello specifico, su: equivalenza delle mansioni, orario di lavoro e uso di nuove tecnologie. Accanto a questo, le parti chiedono al governo l’impegno su una «riforma strutturale del sistema fiscale» orientata a gravare meno su lavoro e imprese nonché la conferma di detassazione e decontribuzione. Entro fine anno 2012, infine, ci sarà l’avvio all’attuazione della rappresentanza sindacale (Accordo 28 giugno 2011).
 Detassazione e decontribuzione. Prima di tutto l’accordo chiede a governo e parlamento di rendere stabili e certe le misure previste per applicare, sui redditi da lavoro dipendente fino a 40 mila euro lordi annui, la detassazione del salario di produttività con un’imposta sostitutiva dell’Irpef del 10%. E chiede pure che venga data compiuta applicazione allo sgravio contributivo per incentivare la stessa contrattazione collettiva di secondo livello, fino al limite del 5% della retribuzione contrattuale percepita dal lavoratore.
Riforma fiscale. L’accordo, inoltre, ritiene che la bassa crescita della produttività comporti un aumento del costo del lavoro e, quindi, una perdita di competitività. Perdita immediatamente riscontrabile nell’alto deficit con l’estero e nello spostamento dell’occupazione verso altri paesi. In questo quadro, le parti sociali chiedono al governo di tracciare «le linee guida per attuare una riforma strutturale del sistema fiscale che lo renda più equo e, quindi, in grado di ridurre la quota del prelievo che oggi grava su lavoro e imprese in maniera del tutto sproporzionata e tale da disincentivare investimenti e occupazione».
Sulla rappresentanza. Entro fine anno, ancora, verrà disciplina la «rappresentanza sindacale» con un regolamento che darà avvio alla misurazione della rappresentanza in base ai principi dell’accordo 28 giugno 2011. Non si escludono meccanismi sanzionatori in capo alle organizzazioni inadempienti. 
Più contratto, meno legge. Sull’assunto condiviso della necessità che la contrattazione collettiva venga esercitata con «piena autonomia» su materie oggi regolate in maniera prevalente o esclusiva dalla legge che, direttamente o indirettamente, incidono sul tema della produttività del lavoro, l’accordo vede infine l’impegno delle parti sociali ad affrontare in sede di contrattazione collettiva le questioni ritenute più urgenti quali in via esemplificativa:
  • tematiche relative a equivalenza delle mansioni e integrazione delle competenze, presupposto necessario per consentire l’introduzione di modelli organizzativi più adatti a cogliere e promuovere l’innovazione tecnologica e la professionalità utili alla crescita della produttività e della competitività aziendale;
  • ridefinizione dei sistemi di orari e loro distribuzione anche con modelli flessibili, in rapporto agli investimenti, all’innovazione tecnologica e alla fluttuazione dei mercati finalizzati al pieno utilizzo delle strutture produttive idoneo a raggiungere gli obiettivi di produttività convenuti;
  • modalità attraverso cui rendere compatibile l’impiego di nuove tecnologie con la tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori, per facilitare l’attivazione di strumenti informatici ordinari, indispensabili per lo svolgimento delle attività lavorative.
Le risorse. Infine, si ricorda che la firma all’accordo svincola le risorse previste dalla legge di Stabilità pari, complessivamente, a 2 miliardi 150 milioni di euro per il biennio 2013/2014.

giovedì 29 novembre 2012

A proposito di Fiat


Angeletti (Uil):
“Si a Fabbrica Italia, ma insieme alla Fiat devono crescere anche i salari”
di Giuseppe Sabella e Luigi Degan

Luigi Angeletti, Segretario Generale della Uil, intervistato da Tempi: “La Cgil è traumatizzata dalla globalizzazione. In Europa non sono i Governi a decidere le politiche economiche, la centralità dell Stato oggi è ideologia”.

Una lunga esperienza sindacale iniziata negli anni ’70. Nel luglio 1994, alla guida della Uilm, Angeletti realizza il primo rinnovo del contratto dei metalmeccanici senza una sola ora di sciopero. E’ stato tra i più attivi sostenitori della nascita del moderno stabilimento europeo dell'auto (FIAT di Melfi). Nel 1998 viene eletto Segretario Confederale UIL e, dal 13 giugno del 2000, ne è Segretario Generale. Luigi Angeletti è anche membro dell’Esecutivo della Confederazione Europea dei Sindacati (CES) e Consigliere del Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro (CNEL).
Segretario Angeletti, il Sindacato da anni sta dando un contributo molto importante al processo di riforma del lavoro. Quali sono le difficoltà che lei ha incontrato alla guida della UIL?
Le difficoltà sono abbastanza oggettive, si tratta di produrre dei cambiamenti e questo impone di avere un’idea sufficientemente chiara della direzione verso cui questi cambiamenti spingono. E quindi avere anche la capacità di adeguare risposte diverse ai problemi che magari sono sempre gli stessi: come proteggere le persone e che tipo di regole nuove ci vogliono ai fini di conservare la missione del sindacato, che è quella di rappresentare le persone. Il problema vero è che bisogna farlo con metodologie diverse da quelle che sono state sperimentate in passato.
Quindi a volte le resistenze che si incontrano sono dettate dalle novità più che da un vero e proprio problema reale… si spiega così l’isolamento della Cgil?
E’ proprio così. La Cgil è traumatizzata dalla globalizzazione. Basta leggere e vedere ciò che dicono e si nota che percepiscono ogni cambiamento come negativo. Ora, non tutti i cambiamenti sono di per sé positivi, ma sicuramente l’ultima scelta che bisogna fare è quella di essere dei conservatori nel senso più classico del termine. Cosa fanno le persone conservatrici o le persone molto anziane? Parlano solo del passato, di come era. Tutto ciò che è nuovo è pericoloso, sbagliato, non va bene… Questo trauma della globalizzazione è anche il diverso ruolo dello Stato, la perdita della sovranità degli Stati su molti aspetti della vita economica e sociale, soprattutto in Europa per effetto del processo di Costituzione dell’Europa a partire dalla moneta unica. In un’organizzazione così timorosa dei cambiamenti, si aggiunga la perdita di centralità dello Stato nazionale a cui la Cgil era ideologicamente attaccata. L’unica cosa che conta, anche se spesso dicono delle cose che fanno sorridere, è che pensano che la politica economica del governo sia fondamentale. Ma in nessun paese europeo la politica economica è decisa dai governi, come è evidente dall’appartenenza all’Unione Europea. La richiesta di leggi, questa centralità politicamente assorbente dello Stato, è un po’ nella loro ideologia, che ovviamente oggi è quasi dannosa e produce un effetto di spaesamento. Non rierscono ad elaborare una teoria che non sia quella del danno temuto.
Quindi, non si tratta solamente di posizioni conservatrici, ma anche di grosse difficoltà di lettura dei cambiamenti…
Il punto è proprio questo: i lavoratori, come tutte le persone normali, si interrogano chiedendosi se i cambiamenti in atto sono positivi o negativi, utili o non utili, e su come è possibile reagire. Se coloro che si sono assunti il compito di dare delle risposte ed offrire delle soluzioni sono i primi ad essere impauriti, come si può pensare che i lavoratori possano essere aiutati a capire come vanno le cose? I gruppi dirigenti esistono per dare delle risposte, non per aumentare le domande e l’incertezza.
In merito alla legge delega sullo Statuto dei lavori, la cui bozza vi è stata inoltrata dal Ministro Sacconi, ci sembra innanzitutto importante il coinvolgimento del Sindacato nella stesura del disegno di legge. Ritiene che sia un passo in avanti verso la modernizzazione del sistema delle tutele per i lavoratori?
L’osservazione è molto significativa. Si tratta di un cambiamento di impostazione: lo Stato fa un passo indietro e cerca di coinvolgere la cosiddetta società civile, in questo caso – parlando di lavoro – le Parti Sociali, nella definizione di regole nuove. Che è esattamente ciò di cui c’è bisogno, di fare regole nuove e di non illudersi che ci siano degli illuminati che possiedono delle risposte. Le risposte nuove possono essere trovate solo attraverso il coinvolgimento delle persone che vivono questi problemi, come le Parti Sociali. Un tempo le regole sul mercato del lavoro veniveno decise dai Parlamenti. La conclusione è che queste risposte non possono essere date dallo Stato: il coinvolgimento delle Parti Sociali non è solo un’idea condivisibile, ma anche molto moderna, corrispondente ai nuovi assetti della Società.
In particolare la bozza si riferisce ai lavoratori dipendenti e ai collaboratori in regime di mono-committenza senza nulla dire circa i lavoratori autonomi che possono considerarsi, in alcuni ma significativi casi, anche più deboli. Cosa ne pensa?
Il problema della mono-committenza è molto semplice, l’anomalia dell’Italia è questa condizione. Siccome non si riesce più da molto tempo a costruire, a definire banalmente, delle nuove regole, è stata fatta un’operazione molto semplice: si è cercato di rendere labile e quasi impercettibile la differenza che c’è tra un lavoratore autonomo e un lavoratore dipendente. Il co.co.co. e le partite iva fasulle che cos’erano se non lavoro dipendente? Ad esempio, la cassiera di un supermercato non è un lavoratore autonomo, perché non decide come e quando lavorare e quanto guadagnare, caratteristiche tipiche del lavoro autonomo. Quindi, dettare delle regole che facciano questa distinzione, è uno degli aspetti che consideriamo da anni; sono stati fatti passi avanti facendo chiarezza nelle collaborazioni coordinate e continuative. Ma, appena questo è stato fatto, sono aumentate le partite iva. Il lavoratore dipendente non ha rischi d’impresa, non è sul mercato come un professionista. Quindi l’unica cosa vera è cercare di capire se una partita iva è vera o non vera, quali sono i caratteri che la contraddistinguono. Ad esempio, tra le partite iva ci sono professionisti che guadagnano 2 milioni di euro l’anno. Sono paragonabili alle partite iva che guadagnano 10 mila euro l’anno? A livello di tutele, perché dovremmo estendere la cassa integrazione a un professionista come Marchionne?
Ora che la contrattazione sta diventando sempre più aziendale e decentrata, qual è la politica sindacale che la UIL dovrebbe perseguire nel prossimo decennio? E come ritiene che sarà il rapporto con i diversi sindacati anche locali?
I sindacati locali devono piano piano perdere – i nostri lo faranno – caratteristiche e aspetti centralistici nel modo di organizzare le relazioni sindacali. Anzi, il sindacato nel suo complesso, tout court, dovrebbe farlo. Venti anni fa ciò aveva un senso, oggi non ne ha nessuno. E’ un problema di pigrizia mentale o di strutture di potere banali all’interno delle organizzazioni sindacali. L’articolazione territoriale o aziendale è un’utile necessità. E’ il modo che rientra nella nostra natura di italiani, non abbiamo una storia e una cultura di paese centralista, anche se poi lo siamo diventati in qualche ramo. Questo è un concetto che, almeno dentro la Uil, è stato perfettamente compreso e si procede senza drammi, perché è una cosa che abbiamo a lungo discusso, pensato, elaborato e dibattuto, da molti anni. E quindi oggi siamo nella condizione di applicare tutto come una buona pratica che abbiamo meditato e, per certi versi, voluto. Noi, a differenza di altri, da 10 anni chiediamo di cambiare il modello contrattuale rispetto a quello iper centralistico che avevamo prodotto all’inizio degli anni 90, allora necessario. E finalmente poi ci siamo riusciti, con un po’ di fatica. Non abbiamo subito nessuna riforma, l’abbiamo rivendicata per molto tempo.
Come ritiene che debba realizzarsi una maggior partecipazione dei lavoratori all’azienda?
In diversi modi, perché differenziata è la struttura del nostro sistema economico. Questa differenziazione è una banalità che tutti conoscono, anche voi giornalisti. E’ però paradossale che le risposte non tengano conto di un’analisi che si fa, che le medicine siano altre rispetto alla diagnosi che si fa. Poi bisogna valutare se questa differenziazione è cosa buona o non buona. Si può ritenere che la bontà stia nel diventare tutti uguali e fare grandi imprese, anche se abbiamo fatto il contrario per tanti anni e anche in presenza di un’avversione per la grande impresa nel patrimonio ideologico dell’Italia; nella grande impresa si può avere una co-gestione alla tedesca, se l’azienda è quotata in borsa addirittura la partecipazione azionaria.
Le grandi imprese però iin Italia sono poche, come ha ricordato lei. Nelle altre è possibile pensare ad una maggior partecipazione dei lavoratori?
Nella media impresa è evidente che la partecipazione azionaria è da escludere, anche da un punto di vista ideologico. Qui bisogna trovare quei sistemi che consentano ai lavoratori di conoscere quali sono le politiche dell’impresa per poter dire la loro opinione. Dire quali sono gli obbiettivi produttivi dell’impresa per condividerne quindi anche i risultati che ripartiscono in maniera più congrua i vantaggi che l’impresa ha quando ha successo. La cosa veramente importante è rompere quella frattura che c’è tra coloro che comandano e coloro che obbediscono, la divisione tra capitale e lavoro. Oggi questa non è più possibile: il lavoro è conoscenza e la conoscenza è fattore di produzione più importante del capitale. Quindi la divisione tra capitale e forza lavoro è, oltre che ideologica, superata da un punto di vista storico e pratico.
Un’ultima domanda: cosa ci dice a proposito di Mirafiori?
Abbiamo dato il nostro assenso al progetto Fabbrica Italia perché consente di mantenere dei posti di lavoro e la produzione di auto di un certo livello. Poi nell’ambito del contenuto degli accordi è necessario che, alle richieste della Fiat, segua la disponibilità ad un incremento dei salari dei lavoratori.

Allarme Ocse sul lavoro in Italia

Avvenire, 27 novembre 2012


L'area euro tornerà alla crescita solo nel 2014, con un'espansione dell'1,3%. Sono le nuove previsioni dell'Ocse, riviste al ribasso rispetto all'outlook pubblicato lo scorso maggio. Le nuove stime vedono l'economia dell'unione
monetaria in calo dello 0,4% quest'anno e dello 0,1% nel 2013.
L'economia mondiale, prevede ancora l'Ocse, crescerà del 2,9% nel 2012 e del 3,4% l'anno successivo. Si tratta di una netta revisione al ribasso rispetto alle stime precedenti, che calcolavano una crescita del 3,4% nel 2012 e del 4,2% nel 2013.
Nell'eurozona, sottolinea l'organizzazione di Parigi, "serve un'unione bancaria completa nel lungo termine, mentre nel breve periodo sono necessarie iniezioni di capitale diretta dall'Esm alle banche". L'unione monetaria, prosegue l'Ocse, ha inoltre bisogno di riforme strutturali che "stimolino la crescita rimuovendo gli ostacoli agli investimenti e all'efficienza nel settore dei servizi".
L'Ocse ha rivisto al ribasso anche le stime sulla crescita degli Usa, prevista al 2,2% quest'anno (contro il +2,4% stimato a maggio) e al 2% nel 2013 /+2,6% nell'outlook precedente). I paesi che registreranno le performance migliori saranno le economie emergenti esterne all'area Ocse, che restano comunque soggette a possibili effetti contagio legati alla crisi in Europa. In particolare il Brasile crescerà dell'1,5% quest'anno e del 4% nel 2013, la Cina del 7,5% nel 2012 e dell'8,5% l'anno successivo, l'India del 4,4% nel 2012 e del 6,5% nel 2013.
Per contrastare la crisi, che manterrà i tassi di disoccupazione elevati, quando non in un ulteriore crescita, in numerosi paesi, l'Ocse ha invitato a un alleggerimento generalizzato della politica monetaria. In particolare, sostiene l'organizzazione di Parigi, la Bce dovrebbe abbassare i tassi di interesse di un ulteriore 0,25%.
Il tasso di disoccupazione in Italia, stimato al 10,6% nel 2012, è destinato a salire all'11,4% nel 2013 e all'11,8% nel 2014. Alla luce delle previsioni dell'Ocse, che ha stimato un deficit/Pil al 2,9% nel 2013, l'Italia potrebbe avere bisogno di una nuova stretta fiscale nel 2014 per rispettare l'obiettivo di una riduzione del debito al 119,9% del Pil nel 2015. 
Le riforme varate dal governo Monti, in particolare quella del mercato del lavoro, riusciranno a sollevare l'Italia da una decade di stagnazione economica e l'esecutivo che gli succederà dovrà proseguire sulla stessa linea di riforme strutturali e consolidamento fiscale. È quanto afferma l'Ocse, aggiungendo che "una marcia indietro danneggerebbe sia la fiducia dei mercati che la crescita". 
Le misure di austerità varate dal governo Monti hanno causato il maggior calo dei consumi registrato in Italia dal secondo conflitto mondiale. Lo sottolinea l'Ocse nel suo nuovo outlook. "Il consolidamento fiscale, pari quest'anno a quasi il 3%, ha indebolito la domanda interna, e i consumi privati sono scesi al tasso maggiore dalla Seconda Guerra Mondiale", afferma l'organizzazione di Parigi. 
L'analisi dell'Ocse ha sollecitato il ministro dell'Economia, Vittorio Grilli, che ha allontanato l'ipotesi di una possibile nuova manovra nel 2014. A una precisa domanda sulla questione infatti ha replicato: "Io ritengo che
non sia necessaria"..

mercoledì 28 novembre 2012


Pmi, ricerca, sviluppo e innovazione:
come accedere ai fondi pubblici

AssoMec organizza a Milano “I Lunedì dei Saperi d’Impresa”, il ciclo di appuntamenti gratuiti dove gli imprenditori si incontrano e condividono le occasioni di crescita e sviluppo per reagire alla crisi

Redazione ilVostro
La crisi economica non lascia scampoLa crisi economica non lascia scampo
MILANO – “Innovare? Si deve, si può, si fa”. È questo il titolo dell’incontro che si terrà lunedì 26 novembre prossimo, aperto agli imprenditori che vogliono cogliere nuove opportunità per lo sviluppo della loro attività e confrontarsi per uno scambio di buone prassi. L’evento si inserisce nel ciclo di incontri “I Lunedì dei Saperi d’Impresa”, organizzato daAssoMec e Fabbrica del Sapere d’Impresa, e si terrà presso la sede dello Studio Legale Battagliese Buonaguidi situata nel centro di Milano (Corso Vittorio Emanuele, 30 – MM1 San Babila).
Questo secondo appuntamento ospiterà l’intervento dell’ing. Roberto Gajoresponsabile qualità di Inoxhip, piccola azienda meccanica brianzola (35 addetti), attiva nel settore dei componenti e dei sistemi per acqua ad alta pressione. La Inoxihp ha attivato un piano formativo organico e ha sfruttato i finanziamenti per la formazione offerti da Fondimpresa per avviare una fruttuosa collaborazione con il Politecnico di Milano nell’ambito della ricerca applicata, mirata a introdurre un processo di innovazione produttiva e dei materiali impiegati.
Ai “Lunedì dei Saperi d’Impresa”, che si tiene ogni terzo lunedì del mese, un imprenditore racconta la propria storia di successo e a seguire si apre un confronto tra i partecipanti con esperti in finanza agevolata, per verificare opportunità e trovare nuove strade percorribili. «Le imprese che oggi continuano con coraggio a investire sul capitale umano e sull’innovazione anziché limitarsi a tagliare i costi rappresentano un’eccellenza. È importante che le aziende si incontrino per vedere che esistono opportunità concrete che possono e devono essere colte da tutti» – commenta Barbara Pigoli, presidente di AssoMec. «Il caso Inoxihp dimostra che, usando adeguatamente tutti i finanziamenti offerti dei fondi interprofessionali, anche una piccola azienda a gestione familiare è in grado di attivare progetti di ricerca ambiziosi, coinvolgendo partner di rilievo come il Politecnico».
La partecipazione all’incontro è gratuita, previa iscrizione presso la segreteria organizzativa (segreteria@assomec.eu, tel. 02435132109).

Industria: Taranto e Florange, si spegne la siderurgia europea



“L'Ilva chiude, 5mila a casa”, titola il Corriere della Sera. Le trattative sul futuro dell'acciaieria più grande d’Europa, al centro di una complicata vertenza da quando un’inchiesta ha dimostrato che gli enormi livelli di inquinamento hanno provocato migliaia di morti nella vicina Taranto, sono arrivate a una svolta. Le autorità hanno infatti ordinato la chiusura di alcune strutture di produzione ed emesso mandati d’arresto per sette dirigenti. I proprietari hanno reagito chiudendo l’impianto e mandando a casa cinquemila lavoratori. La mossa potrebbe coinvolgere altri stabilimenti e l’indotto, provocando la perdita di oltre ventimila posti di lavoro. I sindacati hanno occupato gli uffici della direzione in segno di protesta.
A Taranto la popolazione è divisa tra la paura della disoccupazione e i timori per la propria salute, scrive la Stampa. “Schiacciata tra […] un’opera di risanamento ambientale tanto indifferibile quando ciclopica ed una situazione politica e sociale pericolosissima[…], [la città] rischia una vera e propria guerra civile”. 
La vicenda ha ormai da tempo una rilevanza nazionale. “Qual è il messaggio che da Taranto mandiamo a chi ci guarda per decidere se vale la pena di investire da noi?”, si domanda il Sole 24 Ore sottolineando che “non può essere la crociata di una procura o di pochi magistrati a decidere quale debba essere la sorte di uno dei siti produttivi più strategici per la politica industriale del Paese”. Secondo il giornale di Confindustria la crisi dell’Ilva
 fa la gioia di una concorrenza europea che vede soccombente, per ragioni non di mercato, uno dei principali competitor continentali. Una manna per i gruppi tedeschi e francesi. In Francia, tra l’altro, lo Stato è così consapevole del valore strategico della siderurgia da non esitare a invocare la nazionalizzazione di due impianti che non trovano compratori perchè poco competitivi (e inquinanti). L’occupazione prima di tutto: i transalpini dicono senza complessi ciò che a Taranto è impossibile anche sussurrare. 
A Parigi, intanto, il governo è impegnato in un braccio di ferro con la Arcelor Mittal, che vorrebbe fermare gli altiforni di Florange, in Lorena. L’esecutivo si è detto disposto a nazionalizzare temporaneamente il sito, dove sono in pericolo 630 posti di lavoro. “Una buona idea o una missione impossibile?” si domanda Libération. Il 27 novembre il presidente François Hollande dovrebbe incontrare Lakshmi Mittal per “convincere il capo del gruppo a cedere la totalità del sito, ovvero gli altiforni e l’impianto per la trasformazione dell’acciaio grezzo, la parte più moderna e ancora in attività”. Secondo il quotidiano
La tensione tra il governo e Mittal è al massimo. A una settimana dalla data di scadenza per la ripresa di Florange piovono le minacce. Il governo brandisce la possibilità di una nazionalizzazione se il gruppo siderurgico non cederà l’intero sito. Il produttore replica che la vendita di tutte le installazioni è fuori discussione, perché sono inseparabili dalla sua filiera industriale.

martedì 27 novembre 2012

Riflessioni sulle primarie di centrosinistra

I costruttori

Al voto per le primarie del centrosinistra sono andati 3,1 milioni di italiani: è il dato delle elezioni del 2009 e di questi tempi è un successo. Al ballottaggio del 2 dicembre andranno Perluigi Bersani, con il 44,9% dei voti, e Matteo Renzi, con il 35,6: sono dati pressoché definitivi. Non per il corifeo del nuovo che avanza, però, per il Rottamatore, che questi dati contesta ed avanza una richiesta a parer mia del tutto legittima, perché, come diceva il buon vecchio Lenin: «La fiducia è bene, il controllo è meglio». E la richiesta è quella che il Coordinamento nazionale delle primarie metta online i verbali di tutti i novemila seggi.
Bersani risponde con un abbraccio: vorrebbe che riferendosi a lui ed ai suoi sostenitori Renzi usasse il “noi” e non il “loro”, che andrebbe invece riservato a Berlusconi. Be’, in questo il segretario del partito un po’ del Gargamella ce l’ha. Un po’ di ipocrisia ce la mette. Perché finché la competizione elettorale non sarà conclusa Renzi gli sarà avversario e questo “volemose bene” anticipato sa tanto d’antico, di machiavellico, di capzioso.
Ora dicono che al sindaco di Firenze sono andati i voti della destra. Non credo sia vero, e tuttavia coloro che lo dicono pensano forse sia di destra la riforma del lavoro proposta da Ichino, che Renzi ha posto tra le sue priorità di governo. Ma costoro sbagliano. È di sinistra. Perché ciò che migliora le condizioni di un crescente numero di lavoratori è di sinistra.

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La riforma Ichino, in sostanza, fa due cose: riduce le più di cento leggi sul lavoro emanate dal 1923 ad oggi a 64 articoli del Codice civile – perdonino i rottamandi consulenti del lavoro –  e introduce una visione del lavoro inedita, in Italia, d’ispirazione, pensate un po’, danese: la flexsecurity, vale a dire un modello che unisca il massimo di flessibilità possibile delle strutture produttive con il massimo possibile di sicurezza dei lavoratori nel mercato del lavoro.
Lo so che alla sinistra piacciono le favole, ma se in Italia la metà dei lavoratori non ha alcuna forma di protezione in caso di perdita del lavoro è anche colpa della sinistra, che ha ecceduto nella difesa di tutte le garanzie acquisite da alcuni non accorgendosi che il prezzo era l’assenza di garanzie per altri. Scrive Ichino nel suo disegno di legge:
«In sostanza si tratta di questo: un codice del lavoro semplificato, composto di una settantina di articoli molto chiari e facilmente traducibili in inglese, suscettibili di applicarsi a tutta l’area del lavoro sostanzialmente dipendente. Così si supera il dualismo fra protetti e non protetti nel mercato del lavoro. L’idea è che, in partenza, questo nuovo “diritto del lavoro unico”, per la parte relativa ai licenziamenti, si applichi soltanto ai rapporti di lavoro nuovi, che si costituiscono da qui in avanti. La nuova disciplina si può sintetizzare così: tutti a tempo indeterminato (tranne, ovviamente, i casi classici di contratto a termine, per punte stagionali, sostituzioni temporanee, ecc.), a tutti le protezioni essenziali, in particolare contro le discriminazioni, ma nessuno inamovibile. E a chi perde il posto una garanzia robusta di assistenza intensiva nella ricerca della nuova occupazione, di continuità del reddito e di investimento sulla sua professionalità. Quello che l’impresa risparmierà in termini di tempestività dell’aggiustamento degli organici basta e avanza per coprire il costo di una assistenza alla danese nel mercato del lavoro».
Questa cosa è di sinistra. Qualcuno lo dica a Vendola. Questa cosa o la si fa e presto o i lavoratori diverranno nemici. Come Gargamella e i puffi. Ma per le strade il rosso non sarà solo quello del cappello dei funghi. Per questo non metterò come immagine un disegno di Peyo ma un dipinto di Léger, “I costruttori”. Sarà che non ho mai smesso di credere che il lavoro nobilita l’uomo. Sarà che mi piace pensare che la funzionalità dell'uomo, per esprimermi con un linguaggio tanto caro alla psicologia cognitiva, sia anche e forse primariamente collettiva. 
A presto. 
Edoardo Varini

(26/11/2012)

lunedì 26 novembre 2012

Censis: "La contraffazione inquina il mercato" Senza il falso più posti di lavoro e entrate fiscali


Rintroducendo i prodotti contraffatti sul mercato legale, la produzione salirebbe di 13,7 mld e le imposte (indotto incluso) di 4,6. Lo sottolinea una ricerca del ministero dello Sviluppo economico

Senza la contraffazione in Italia ci sarebbero 110mila posti di lavoro in più e 1,7 miliardi di entrate per il fisco. Questo il risultato di una ricerca condotta dal ministero dello Sviluppo economico con il Censis. Se i prodotti falsi fossero venduti sul mercato legale, la produzione salirebbe di 13,7 miliardi e le imposte (indotto incluso) di 4,6 miliardi.
Il mercato italiano del falso fattura 6,9 miliardi di euro. E' così esteso, sottolinea la ricerca, che "non esiste prodotto che non possa essere imitato e venduto". I settori più colpiti sono l'abbigliamento e gli accessori con un giro d'affari di 2,5 miliardi, i cd, dvd e software (1,8 miliardi) e l'alimentare (1,1 miliardi). E per i cosmetici la crescita della contraffazione è stata di almeno 15 volte in 10 anni.

"In un periodo di crisi dove si ragiona di uno o due decimi di punto di crescita, la contraffazione sottrae al Paese 5,5 miliardi di valore aggiunto", lo 0,35% circa del Pil, ha spiegato il direttore generale del Censis, Giuseppe Roma, durante la conferenza "L'impatto della contraffazione sul sistema-Paese".

Ciò che sostiene il mercato del falso, secondo la ricerca del Censis, è una domanda "consistente" da parte dei consumatori che sono "indifferenti al fatto di compiere un atto illecito e convinti di fare un affare". La contraffazione spazia dai gioielli alle calzature, dai giocattoli ai medicinali.

Sul mercato del falso poi sono diffusi altri illeciti, come la contraffazione di design, cioè la riproduzione e commercializzazione di articoli che costituiscono copie illecite di prodotti sulla base di modelli o disegni registrati. Questo fenomeno colpisce soprattutto la pelletteria, ma anche gli oggetti d'arredamento, per l'illuminazione, i casalinghi.

C'è poi l'abuso dell'indicazione di origine "made in Italy" e di analoghe indicazioni: si spacciano per italiani prodotti che hanno in tutto o in parte origini diverse. Questo fenomeno interessa soprattutto il settore alimentare, ma colpisce anche quello delle calzature

domenica 25 novembre 2012

Le festività portano lavoro


Articolo di Davide Di Priamo su WeItaly del 22 novembre
Crisi a parte, le oramai imminenti festività natalizie porteranno con sé un incremento del giro di affari in quei settori che da sempre, in tali periodi, diventano oggetto di acquisti quasi “irrinunciabili”. Si taglierà qualche eccesso, ma si spenderà comunque di più sebbene con portafogli alleggeriti da qualche nuova tassa o dalla tredicesima ridimensionata.
Assunzioni nelle feste di natale
A beneficiarne saranno i settori della grande distribuzione, dei giocattoli, dell’abbigliamento e della pelletteria, così come quelli della tecnologia e della gioielleria e, più o meno indirettamente, un numero di circa 5.000 persone che proprio di questi periodi trovano occasioni di lavoro in veste di cassieri, scaffalasti, addetti alle vendite, per via del maggior numero di clienti che prenderanno d’assalto numerose attività commerciali.

Il dato è dell’Agenzia per il Lavoro che ha individuato queste categorie di lavoratori tra quelle che maggiormente beneficiano di opportunità impiegatizie durante i periodi di festività, del Natale in particolare.
Tra i requisiti richiesti, l’esperienza è quella che prevale sulle altre. Il tempo a disposizione per la formazione non c’è: pertanto la scelta ricade su personale esperto, meglio se già a conoscenza del prodotto o dei prodotti di quel determinato settore, capace altresì di saper accogliere e trattare con i clienti il più delle volte snervati dalla frenesia di quei giorni (che dovrebbero essere di festa).
Se si mira a posti in attività della moda o delle grandi firme, soprattutto nel centro nord del Paese, la conoscenza dell’inglese o di altre lingue, russo e cinese su tutte (sono quelle parlate dai nuovi magnati in giro per il mondo), costituisce biglietto da visita privilegiato rispetto ad altre candidature.
Attenzione alle fregature: ricordarsi di richiedere sempre una forma di contratto a tutela dei propri diritti. Che sia tempo determinato o, per i più fortunati, indeterminato, ricordarsi sempre di firmarne uno chiaro in tutti i suoi aspetti.

sabato 24 novembre 2012

Visita del Ministro Fornero ai Centri per l'Impiego 2 ottobre 2012

Candidati alle primarie, programmi su Ricerca e Formazione

Articolo di Michele Spalletta su Ustation.it del 22 novembre

Tra chi traccia dei punti ben precisi degli interventi da realizzare a chi accenna a linee generali da sviluppare, ecco le idee dei cinque candidati alle primarie di coalizione del centrosinistra sui temi di scuola, università, ricerca e formazione

Un accenno lo fanno tutti in molte occasioni, ma a parlarne seriamente sono veramente in pochi. Parliamo dei temi scuola, università, ricerca e formazione, tanto cari, come slogan, ai politici quanto poco approfonditi quando si parla di programmi, soluzioni e interventi concreti.
Ecco allora che, mentre in tutta Italia si moltiplicano a macchia d'olio le manifestazioni, le occupazioni e le proteste di studenti, docenti e amministrativi del comparto, siamo andati a cercare, nei programmi e nelle interviste, cosa hanno detto i candidati alle primarie di coalizione del centrosinistra, in vista del voto del 25 novembre.
A mettere dei veri e propri punti programmatici sui settori in questione sono stati, fino ad ora, soltanto Matteo Renzi eNichi Vendola. Il segretario del PD Pierluigi Bersani, pur tracciando i principi sui quali si baserà il suo intervento politico, non offre a suppporto un programma dettagliato.
Più selettivi gli interventi di Laura Puppato, che si concentra maggiormente sulla scuola dell'infanzia e primaria, mentre sono pressoché assenti, fino ad ora, i riferimenti al comparto formazione di Bruno Tabacci.

Il Pdl e il lavoro


Il PDL considera il lavoro non solo fonte di reddito ma ancor più attività con la quale ciascuno può esprimere le proprie potenzialità, migliorando la propria personalità e così anche le comunità di appartenenza, dalla famiglia all’impresa, dal territorio alla nazione; il senso del lavoro presuppone quindi il senso della vita nella relazione con gli altri; il lavoro e’, con gli affetti ed il riposo, componente essenziale della vita buona di ciascuna persona, di tutte le persone; la vita buona si realizza quindi nella società attiva.
Maurizio Sacconi


Per questo il PDL associa al lavoro i concetti di responsabilità e di sicurezza secondo un necessario equilibrio di diritti e di doveri; per questo esso sostiene il coinvolgimento dei lavoratori nella vita dell’impresa in quanto comunità di interessi e di valori ove tutti si riconoscono ed accettano condividendo non solo le fatiche ma anche i risultati attraverso il salario premiale, la solidarietà nelle difficoltà transitorie, provvidenze integrative per sé ed i componenti del nucleo familiare; per questo, quando il rapporto fiduciario o l’equilibrio economico si interrompono, ritiene necessaria, a determinate condizioni e tutele, con la sola eccezione delle ragioni discriminatorie, la possibilità della risoluzione del rapporto di lavoro affinché l’impresa continui, attraverso la coesione e l’efficienza, a crescere ed assumere; per questo il PDL promuove la dimensione comunitaria e solidale dei territori attraverso la collaborazione delle istituzioni con le organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori in funzione della occupabilità e dell’inclusione di tutte le persone.

Il PDL ha ispirato a questi valori, a questa visione, le intense iniziative per il lavoro del Governo Berlusconi in un tempo eccezionalmente difficile per la conservazione e la creazione di occupazione; la responsabilità si e’ definita in capo alle istituzioni statuali e regionali, alle organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori, alle stesse persone; la sicurezza si e’ realizzata in termini di straordinari investimenti pubblici nel sostegno al reddito degli inattivi, in un mercato del lavoro più efficiente e trasparente attraverso il collocamento liberalizzato e il monitoraggio dei mestieri richiesti, in migliori opportunità educative e formative grazie alle relative riforme, nella detassazione dei salari collegati alla produttività, nelle maggiori capacità della contrattazione aziendale, nella tutela della salute nei luoghi di lavoro secondo criteri più sostanziali e meno burocratici, nell’emersione del lavoro sommerso attraverso modalità semplificate come i voucher e migliori attività repressive degli illeciti, nella maggiore sostenibilità del sistema previdenziale in forza delle nuove regole sull’età di pensione.
Il PDL opera per liberare e mobilitare le energie vitali della società italiana, a partire dai più giovani ai quali tutti vuole siano offerte opportunità di accesso alle qualificazioni superiori cui sono diversamente vocati, collegando scuole ed università alle imprese e al mercato del lavoro, rivalutando le conoscenze matematiche, tecniche, scientifiche ed il lavoro manuale, promuovendo il nuovo apprendistato non solo quale modo prevalente di accedere al lavoro, ma anche come percorso formativo per acquisire diplomi e qualifiche professionali, lauree, dottorati di ricerca, praticantati professionali.

Il PDL promuove la migliore remunerazione del lavoro attraverso l’ulteriore evoluzione dei modi con cui definire il salario sulla base di contratti nazionali "minimi" e di accordi aziendali, collettivi e individuali, che lo colleghino al merito soggettivo e ai risultati oggettivi secondo una tassazione, per questa parte crescente, definitivamente agevolata e separata.

Il PDL ritiene siano mature le condizioni per completare, generalizzandolo, razionalizzandolo e adattandolo alle diverse dimensioni di impresa, il sistema di ammortizzatori sociali fondato sulla assicurazione obbligatoria di tutti i lavoratori economicamente dipendenti, qualunque sia il contratto di lavoro, e per incentivare la garanzia di sussidi aggiuntivi attraverso forme di assicurazione collettiva e volontaria promosse dalle parti sociali con i loro organismi bilaterali.
Il PDL condivide le sollecitazioni delle istituzioni europee ed internazionali tutte per un mercato del lavoro italiano ancor più capace di conciliare sicurezza dei lavoratori e flessibilità organizzativa delle imprese; a questo scopo propone il dovere delle Regioni e dei datori di lavoro che riducono l’occupazione di sostenere insieme le attività, private e pubbliche, di ricollocamento e formazione dei lavoratori costretti - e responsabili - nella ricerca di un nuovo lavoro.

Il PDL riconosce il valore primario di quella sicurezza sociale che si realizza con i due pilastri previdenziali, quello obbligatorio e quello complementare, per i quali chiede una regolazione europea quanto più convergente; per questo esso intende sostenere la diffusione della cultura previdenziale - prevedere per provvedere - e del relativo risparmio volontario che può affluire tanto alla gestione obbligatoria per coprire, ancor più ora, periodi carenti, quanto alle forme complementari opportunamente incoraggiate.

Il PDL , soprattutto in un tempo di cambiamenti epocali e di diffuse insicurezze, combatte la solitudine delle persone di fronte alle difficoltà attraverso la maggiore protezione economica e professionale dei lavoratori, quale può essere garantita non solo dallo Stato ma anche, in sussidiarietà, dai corpi sociali e dalle molteplici forme comunitarie; il PDL confida che, a dieci anni esatti dalla morte di Marco Biagi, la nazione intera voglia trarre dalla sua memoria, oggi condivisa, la forza per superare barriere e pregiudizi realizzando un moderno "Statuto dei Lavori".

I candidati alle primarie di centrosinistra su Lavoro e Giovani

Scritto da Michele Spalletta il 23 novembre 2012



Dal contratto unico alla flexsecurity, dalla diminuzione del cuneo fiscale agli incentivi per le aziende che trasformano i contratti a termine in contratti a tempo indeterminato. Ecco le ricette che i cinque candidati alle primarie di centrosinistra mettono sul piatto per diminuire il precariato e offrire più opportunità di lavoro ai giovani




Mancano pochi giorni alle primarie di centrosinistra. Domenica 25 novembre gli elettori sono chiamati a decidere chi sarà a guidare la coalizione nei prossimi appuntamenti elettorali.

Abbiamo spulciato i programmi di Matteo Renzi, Pierluigi Bersani, Laura Puppato, Bruno Tabacci e Nichi Vendola, estrapolando le loro idee per quanto riguarda alcune delle impellenti emergenze nel nostro paese.
E dopo Ricerca e Formazione, siamo andati a vedere quali sono le ricette dei cinque candidati alla leadership della coalizione che riguardano i giovani e il lavoro.
Anche in questo caso, tra programmi, dibattiti e interviste, c'è chi ha attenzionato in maniera più approfondita questi temi, certamente delicatissimi, e chi ha li parzialmente lasciati fuori da questa competizione elettorale "interna", magari in attesa di definire in maniera più compiuta e condivisa le iniziative da mettere in atto con gli altri partiti della coalizione.
temi che, in ogni caso, dovranno fare parte, e certamente lo saranno, dell'agenda politica nei prossimi mesi.
Un solo fattore accomuna, ad oggi, tutti i cinque candidati sul tema del lavoro: la riforma Fornero, così com'è, non piace e va cambiata.

venerdì 23 novembre 2012

Verso le primarie del Pd


“Le resistenze al riformismo non solo dalla CGIL,
ma anche dal ceto legale che beneficia del conflitto di lavoro”
di Luigi Degan e Giuseppe Sabella
27 ottobre 2010
Parla Michele Tiraboschi, docente di Diritto del Lavoro e Consulente del Titolare del Welfare, Maurizio Sacconi. Allievo del Prof. Marco Biagi, ne ha condiviso sin dal principio l’impianto di Modernizzazione e Riforma del Lavoro. Dal 2002, anno in cui il Prof. Biagi fu assassinato dalle BR, lo sta portando avanti a fianco del Ministro Sacconi

Buongiorno Professor Tiraboschi, il provvedimento legislativo ha avuto un iter molto lungo e travagliato. Le ragioni sono tecnico-giuridiche o di altra natura?
E’ da un decennio almeno che si parla di riforma della giustizia del lavoro e anche nella passata legislatura sono stati discussi in Parlamento disegni di legge che poi non hanno avuto un esito positivo data la complessità e delicatezza della materia. Il testo approvato è del resto quello presentato dal Ministro Sacconi già nel 2007. Due anni di dibattito parlamentare hanno semmai sovraccaricato il testo di legge che è più che raddoppiato come precetti estendendosi ora ben oltre il tema, pure centrale, della giustizia in ambito lavoristico.
Quali sono le forze che resistono maggiormente a questo corso riformista?
Sarebbe scontato dire la Cgil e il sindacato conflittuale. In realtà sono vari i soggetti che beneficiano di questo numero esorbitante di conflitti di lavoro, oltre un 1.200.000 cause pendenti! Non da ultimo il ceto legale, avvocati e anche docenti universitari che fanno della complessità della materia del lavoro e del formalismo giuridico una fonte di business.
Ritiene che – nonostante questa resistenza – le norme contenute potranno trovare una concreta applicazione o c’è il rischio che alcune disposizioni non divengano effettive? In questo caso come si potrebbe porvi rimedio?
Il passaggio dal progetto alla legge e dalla legge alla sua attuazione è sempre frutto di una sorta di alchimia. Difficile prevedere i tempi di effettiva attuazione. Basti dire che la precedente grande riforma del lavoro è applicata solo a metà e molte norme – da ultimo la borsa nazionale del lavoro e l'apprendistato per il diritto dovere di istruzione e formazione – sono state attuate nei giorni scorsi! Certamente la parte più delicata riguarda l'arbitrato ma la materia è stata già oggetto di un avviso comune tra tutte le parti sociali, eccetto la Cgil, per cui i tempi di attuazione non dovrebbero essere lunghi.
Il provvedimento appena approvato può essere considerato come uno degli atti concreti del disegno riformatore del mercato del lavoro, del diritto del lavoro e delle relazioni industriali studiato e progettato da Marco Biagi? Lei che sta portando avanti questo lavoro, al quale ha partecipato dal principio quale suo allievo prediletto, cosa ritiene che potrebbe pensarne oggi il Prof. Biagi?
A marzo di quest'anno, nell'ottavo anniversario della sua uccisione, Il Sole 24 Ore ha ripubblicato un articolo del Professor Biagi dall'emblematico titolo “L'arbitrato europeo che sognava Marco Biagi”. L'arbitrato era parte integrante del progetto di riforma e dell'iniziale disegno di legge da cui è poi scaturita la legge Biagi. L'approvazione di questa legge è un modo concreto – anche se minimo – per dare almeno un significato al sacrificio del Professore.

giovedì 22 novembre 2012

Pro-memoria/2


Produttività sfida cruciale per il Paese

La produttività, cruciale per rilanciare la crescita in Italia, è in questi giorni al centro delle decisioni sia contrattuali tra le parti sociali sia fiscali del Governo e del Parlamento. La rilevanza è evidente perché, come dimostra l'Istat, negli ultimi 10 anni l'Italia ha avuto un differenziale di crescita reale annua della produttività pari a -1,2 punti percentuali rispetto alla media della Ue a 27 Paesi. Per semplificare con riferimento all'Italia consideriamo tre grandi categorie di componenti che incidono sulla competitività e produttività: generali; connettivi; aziendali.
Sono temi sui quali Il Sole 24 Ore e Confindustria insistono in modo crescente con scopi che vanno ben oltre quelli aziendali, come dimostrano anche due recenti iniziative: gli "Stati generali della Cultura" promossi dal Sole e "Orientagiovani" promosso dalla Confindustria. La rilevanza consiste nello spiegare - come ha fatto magistralmente il Presidente Giorgio Napolitano - che cultura, istruzione, giovani fanno il futuro di un Paese dal punto di vista sia civile che economico, incidendo anche sulla produttività su cui ci concentriamo.
Tra le componenti generali di competitività e produttività che l'Italia deve riformare ricordiamo le infrastrutture e la burocrazia. Le prime, di cui abbiamo scritto spesso, andrebbero potenziate in quanto si stima che un nostro adeguamento degli investimenti infrastrutturali ai livelli europei può generare un incremento del Pil quasi del 12% nell'arco di un decennio. La burocrazia andrebbe resa più efficiente con le semplificazioni e la drastica accelerazione dei tempi di risposta. Certo la realizzazione delle infrastrutture costa ma non più di quanto costa la burocrazia inefficiente a imprese e famiglie. Bisognerebbe allora attuare uno scambio virtuoso investendo i risparmi derivati da più efficienza burocratica in infrastrutture.
Tra le componenti connettive di competitività e di produttività ricordiamo l'istruzione, la formazione, la ricerca scientifica e tecnologica, le tecnologie dell'informazione e comunicazione, l'organizzazione. È noto che l'Italia ha investito poco in capitale immateriale centrato sulla conoscenza, che aumenta la produttività totale dei fattori. La connettività o complementarietà della conoscenza è chiara perché la qualità delle risorse umane e della ricerca hanno effetti che vanno dal civismo all'innovazione, dall'efficienza alla qualità della vita (basti l'esempio della salute). Ma anche all'aumento della nostra autonomia di Paese dotato di poche materie prime e risorse energetiche. Sulla necessità di potenziare questi fattori in Italia ci sono migliaia di dati che provano un nostro posizionamento sotto le medie europee, salvo qualche eccezione che conferma la regola.
Gli anni di istruzione formale della forza lavoro sono infatti minori e le specializzazioni sono poco connesse alla domanda del sistema produttivo sia dal punto di vista formale (pochi tecnici per le industrie) sia per le scarse corsie di passaggio esperienziale da scuola a lavoro (ci vorrebbe una dualità alla tedesca). Si calcola che due anni aggiuntivi di istruzione per il nostro Paese determinerebbero a regime, una volta coperta tutta la popolazione in età lavorativa, un aumento del Pil del 20% su 50 anni, ovvero in media quasi mezzo punto all'anno. Quanto alla ricerca e sviluppo (R&S) l'Italia è molto al di sotto della media Ue per tutti gli indicatori di investimenti e non raggiungerà certo quel 3% di spesa in R&S sul Pil previsto da "Europa 2020" partendo dall'attuale 1,26%. La Ue e la Uem sono al 2%, la Francia al 2,25%, la Germania al 2,84%. Tuttavia, pur con scarsi investimenti, l'Italia riesce a mantenere livelli internazionali in nicchie universitarie e accademiche nella ricerca pura e applicata. Lo stesso vale per le piccole e medie imprese che malgrado la scarsa brevettazione (le domande di brevetti per milione di abitanti sono 265 in Germania, 135 nella Uem e in Francia, 108 nella Ue e 73 in Italia) realizzano con l'innovazione informale i successi del "made in Italy". Ma senza più investimenti e maggiori dimensioni nella ricerca e nelle imprese non potremo reggere a lungo la competizione internazionale.
Tra le componenti aziendali di competitività e di produttività in evidenza in questi giorni ci sono quelle fiscali e quelle contrattuali. Tra le prime si attende dal Ddl stabilità un credito di imposta per gli investimenti in R&S finanziato su un fondo alimentato dai tagli degli incentivi alle imprese, che avrebbe anche effetti connettivi tra università e imprese come quelli prima trattati. Non è tuttavia nota l'entità del fondo (si dice 400 milioni), quella del credito d'imposta (si dice il 30%), i limiti minimi e massimi per ogni impresa, le annualità. Più definita sembra essere la detassazione dei salari di produttività per la quale si prefigura un fondo di 2,150 miliardi sul triennio 2013-2015, una tassazione (sostitutiva di Irpef e addizionali) al 10% fino a un reddito di 40mila euro, una decontribuzione fino al 5% per incentivare la contrattazione di secondo livello.
Tra le componenti contrattuali fondamentale è l'accordo sulla produttività tra le parti sociali nel cui ambito ci sono la flessibilità nella contrattazione di secondo livello, i limiti alla dinamica retributiva, il demansionamento, le corsie di passaggio occupazionale tra anziani e giovani. Ritorneremo in particolare su questi ultimi temi, consapevoli che solo una politica sistematica e duratura sulle tre componenti indicate contribuirà significativamente alla crescita italiana.

Pro-memoria


CorrIere della sera - 28 settembre 2012


IL RAPPORTO DELLA COMMISSIONE EUROPEA

Produttività in Europa, Italia maglia nera

Crescita negativa per il quarto trimestre consecutivo: -2,1%

Un'assemblea ai cancelli dello stabilimento Fiat di Termini ImereseUn'assemblea ai cancelli dello stabilimento Fiat di Termini Imerese
Crollo della produttività, quarto trimestre consecutivo di crescita negativa. È la fotografia dell'Italia proposta dal rapporto trimestrale della Commissione europea sul mercato del lavoro e la divergenza sociale nella Ue. Nel secondo trimestre l'Italia ha registrato la caduta di produttività più forte nella Ue: -2,1% dopo -0,8% nel primo trimestre, seguita da Ungheria (-1,9%), Regno Unito (-1,4%), Repubblica Ceca e Slovenia (-1,3%). Italia e Malta sono i soli stati Ue che registrano un calo per quattro trimestri consecutivi. Anche Cipro e Portogallo si trovavano al quarto trimestre di crescita negativa.
IL RAPPORTO - Nel rapporto si evidenzia come la situazione sociale e occupazionale nella Ue si è mantenuta «molto grave» nel secondo trimestre del 2012. Nel primo trimestre del 2012 il più alto numero di ore lavorative prestate dai lavoratori dipendenti a tempo pieno si è avuto in Grecia e in Austria, mentre il più basso è stato registrato in Finlandia, Irlanda e Italia. Altra situazione in cui emerge un caso italiano è la situazione delle famiglie: nell'ultimo anno, indica la Commissione, l'Italia ha registrato un aumento «particolarmente forte» delle difficoltà finanziarie seguita da Grecia, Irlanda, Cipro, Portogallo e Spagna. Come si vede tra questi l'Italia è il solo paese che non ha fatto ricorso o non lo ha chiesto all'aiuto dell'Eurozona. In generale, il reddito disponibile loro delle famiglie è calato nei due terzi dei paesi Ue tra il 2009 e il 2011. Nella Ue la disoccupazione ha raggiunto la quota record di 25,3 milioni, con un aumento di 2,6 milioni di unità (+11,6%) rispetto a marzo 2011. Il tasso di disoccupazione, che a livello Ue è ora al 10,4%, è aumentato in 17 Stati membri e si sono nuovamente accentuate le disparità tra i paesi meno in difficoltà e i paesi «periferici».
LA DISOCCUPAZIONE - Il divario fra il paese con la percentuale di disoccupazione più bassa (Austria, 4,5%) e quello con la percentuale più alta (Spagna, 25,1%) e di 20,6 punti percentuali, un massimo storico. Il numero dei disoccupati di lunga durata d' aumentato dall'anno scorso in 15 Stati membri, raggiungendo la quota di 10,7 milioni. I disoccupati di lunga durata costituiscono attualmente il 4,5% della popolazione attiva (+0,4 punti percentuali nell'ultimo anno). La disoccupazione giovanile è a un livello «drammatico»: 22,5% a luglio nella Ue, anche se non è cresciuta nel secondo trimestre. Dodici Stati membri hanno registrato tassi superiori al 25% e solo tre restano sotto la soglia del 10%: Austria, Germania e Paesi Bassi. 8,6 milioni sono i lavoratori a tempo parziale sottoccupati, prevalentemente donne, poi ci sono altri 10,9 milioni situati in una zona grigia tra l'inattività e la disoccupazione, in cui rientra anche chi abbia rinunciato alla ricerca di un lavoro. (Radiocor)

In Europa 13 milioni di giovani disoccupati


Una fila interminabile di macchine vecchie, cariche all'inverosimile e di gente e masserizie, in marcia sulla Highway 66. Se la Grande Depressione ci rimanda alla mente le immagini di Furore, dei contadini cacciati dalle loro terre e in cerca di futuro verso la terra promessa dell'ovest, la Grande Recessione dei nostri anni è ancora in cerca di una narrazione e un'immagine. La prima è difficile (in fondo, anche Furore uscì nel '39, dieci anni dopo); la seconda difficilmente componibile. A meno di non mettere tutti in fila, su un'immaginaria Highway 66, i tredici milioni di giovani europei definiti per negazione: i né-né. Né al lavoro, né a scuola. Persone dalle quali “dipende l'immediato futuro dell'Europa”, e che l'Europa sta bruciando. Sacrificando più o meno due generazioni, come eserciti di leva nella guerra dell'economia.

La frase tra virgolette appena citata non viene da un saggio né da un romanzo né da un discorso politico, ma da una pubblicazione statistica dell'Eurostat, diffusa qualche giorno fa e intitolata “NEETs - Young people not in employment, education or training: Characteristics, costs and policy responses in Europe”. Neet è per l'appunto l'acronimo inglese che individua i giovani, tra i 15 e i 29 anni, che non sono occupati, non frequentano una scuola o università, non sono impegnati in attività di formazione di altro tipo; e l'indagine Eurostat ne traccia le caratteristiche, per la prima volta ne quantifica i costi, e cerca di avanzare qualche proposta politica. Si sapeva già, dai dati sull'occupazione e sulla disoccupazione, che i giovani sono le vittime principali della grande recessione, quella iniziata nel 2007-2008 e della quale in Europa non si vede ancora la fine. Non c'è mese in cui, all'uscita dei dati Eurostat e Istat sui disoccupati, non si parli di nuovi record e non si sottolinei che i record dei record, purtroppo, riguardano la disoccupazione giovanile. Che è sempre stata un po' più alta di quella complessiva, perché i giovani sono più vulnerabili sul mercato del lavoro; ma che è schizzata in su proprio dal 2007 in poi, passando dal 15,7 al 21,4% nella media europea (media dentro la quale c'è anche l'impressionante 46,4% della Spagna, il 44,4% della Grecia, il quasi 30% di Irlanda, Italia e Portogallo). Ma attenzione: il tasso di disoccupazione non ci dice tutto, avverte l'Eurostat.

Qui serve una piccola spiegazione statistica, che potrà sembrare tecnica ma invece ci aiuta a passare dai numeri alle persone. I disoccupati, per le statistiche, sono quelli che non hanno un lavoro e lo cercano, e sono disponibili a andare a lavorare subito. E il cercarlo, sempre negli standard statistici internazionali, richiede azioni precise in tempi precisi: il tutto poi risulta nelle risposte che si danno alle indagini campionarie che con questi criteri vengono condotte, e porta a uniformare a livello mondiale la nozione di “disoccupato”. Dalla quale, dunque, resta fuori chi non ha lavoro e non lo cerca attivamente, oppure non lo ha cercato nei tempi e nei modi codificati. Non solo. Il tasso di disoccupazione è un rapporto, e al denominatore della frazione c'è l'universo di tutti i giovani “economicamente attivi”: ossia quelli che lavorano e quelli che vorrebbero lavorare. Quindi, il tasso di disoccupazione giovanile non risponde alla domanda: qual è la percentuale di giovani che non lavorano?, ma alla domanda “qual è la percentuale di giovani che cerca e non trova lavoro, in rapporto al totale dei giovani che lavorano e che cercano lavoro?”. Quel che ne risulta è un numero importante, un indicatore che – abbiamo visto – è drammaticamente salito negli ultimi anni. Ma dalla fotografia restano fuori gli altri. Il tasso dei “Neet” invece comprende al numeratore tutti i giovani che non sono occupati in qualche attività: di lavoro, formazione o istruzione. E al denominatore l'intero universo del 15-29enni. Dunque, risponde alla domanda (la semplifico così): qual è la percentuale di giovani che non fa niente? Per questo è un indicatore più cupo e drammatico: è più basso del tasso di disoccupazione (per logica matematica: l'universo di riferimento è più ampio), ma più imponente in numeri assoluti. Eccoli: in Europa ci sono 7,5 milioni di Neet tra i 15 e i 24 anni, e 6,5 milioni tra i 25 e i 29. Dunque, 13 milioni, in totale: molti di più dei “semplici” disoccupati, che tra i giovani sono 5,5 milioni. Tredici milioni sui 94 milioni di persone alle quali, scrive l'Eurostat nell'introduzione al suo rapporto, è affidato il futuro dell'Europa, nel contesto di sfide crescenti della piena globalizzazione dell'economia e dell'invecchiamento della popolazione.

Per tornare alle percentuali, il tasso Neet nella fascia di età 15-24 anni è del 13%, mentre per la fascia 25-29 sale al 15%. Entrambi i tassi sono balzati in avanti con la recessione. E non sono uguali per tutti. Così come non sono uguali per tutti le caratteristiche dei giovani Neet. Nella media prevalgono i maschi, ma in alcuni casi – da noi, per esempio - sono più a rischio Neet le ragazze; a volte i Neet sono giovani che hanno perso il lavoro, altre volte giovani che non hanno mai lavorato; e differenti sono anche le caratteristiche dell'istruzione: in linea generale, sono più presenti tra i Neet giovani a bassa qualificazione e istruzione, ma anche qui l'Italia è tra le eccezioni, con una sensibile presenza di Neet con istruzione universitaria.

Se si guarda alla mappa geografica dei Neet, insomma, siamo nelle zone più a rischio: sia per il tasso di Neet, sia per il ritmo del loro aumento con la recessione, sia per la composizione. In particolare, per il precipitare dentro il pozzo dei Neet di donne con alta qualificazione (laureate), e per la strutturale e storica presenza al suo interno dell'universo dei giovani meridionali. 

Di conseguenza, l'Italia è ai primi posti anche nella quantificazione economica dei danni “da Neet”. Il romanzo statistico dell'Eurostat sui Neet infatti ha questa rilevante novità: conta i danni, i costi. Con calcoli precisi e semmai sottostimati. A livello europeo, viene fuori che i giovani né-né costano 153 miliardi: l'1% del Pil europeo. Per paesi come l'Italia, il costo è ancora maggiore: il 2,06% del Pil. Trentadue miliardi, diciamo più o meno 87 milioni al giorno. Vale a dire: se riuscissimo a far entrare al lavoro anche solo la metà dei giovani Neet, la manovra varrebbe un punto di Pil, 16 miliardi. Eppure, mentre a giorni alterni si sente in tv quantificare quanti milioni sono stati “bruciati” in borsa per un'oscillazione dello spread, non ci capiterà mai di accedere il tg e sentire: “anche oggi in Italia sono stati bruciati 87 milioni per la mancata partecipazione dei giovani al mercato del lavoro”.

Mentre bisognerebbe correre a spegnere l'incendio, e ribaltare l'impostazione della politica economica – l'agenda, per usare una parola di moda – mettendo al primo posto loro, quelli che ora sono all'ultimo, invisibili solo perché le famiglie fanno da cuscinetto sociale, e dunque non sono costretti a mettersi tutti in fila su una strada verso l'ovest (o il nord) per cercare un futuro.

I disperati di Steinbeck avevano davanti – anche se non lo sapevano, e molti non ci sono arrivati – l'arrivo del New Deal. I nostri sono meno disperati (alcuni: l'altra conseguenza di tutto ciò è l'aumento delle diseguaglianze e un fortissimo ritorno alla società delle caste familiari, chi può godere della protezione della famiglia comunque se la cava meglio), ma ogni nuovo patto è bloccato dalla camicia di forza nella quale la politica europea si è infilata. Fino a quando?

* quest'articolo è ripreso da www.ilcorsaro.info  e sviluppa la traccia dell'intervento di Roberta Carlini all'incontro dell'European Progressive Economists Network - Firenze 10+10, 9 novembre 2012